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Don Ivan Maffeis e l'umiltà del ''chi sono io per giudicare?''. Risposta: sei l'arcivescovo. Oggi il pastore non guida più il gregge ma si accontenta di stare tra le pecore?

Il prete trentino oggi guida dell'arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve, molto amato e stimato dalla sua gente, nell'ultimo mese ha conquistato la ribalta della cronaca in Trentino per la Lectio Degasperiana e in Umbria per aver fatto visita in incognito a Laura Santi, dirigente dell’Associazione Luca Coscioni malata di sclerosi laterale amiotrofica. In entrambi i casi ha strappato applausi per la sua umiltà. Un prete in ascolto. Eppure quanto ci sarebbe bisogno di prese di posizione da figure isituzionalmente tanto importanti

Di Enrico Rufi - 29 agosto 2024 - 17:02

TRENTO. Diceva Gaetano Salvemini che se ti accusano di aver stuprato la Madunina appollaiata sulla più alta guglia del Duomo di Milano prima ripara all’estero e poi difenditi. Stesso consiglio da parte di Piero Calamandrei nel caso si venisse accusati di aver rubato la Torre di Pisa. Memore di questi insegnamenti, io nel mio piccolo ho aspettato di lasciare il Trentino e di riparare a Roma prima di essere accusato di cantare stonato nel coro di osanna tributati agli ultimi due exploit di un prete trentino molto amato e stimato dalla sua gente, ma anche da papa Bergoglio, visto che due anni fa lo ha scelto per guidare l’arcidiocesi di Perugia - Città della Pieve.

 

Le reazioni che ho personalmente raccolto gli scorsi giorni tra Pinzolo, Trento e la Vallagarina, a parte due-tre eccezioni coperte e protette dal segreto professionale, sono in sintonia con gli articoli della stampa umbra e trentina: standing ovation alla cosiddetta Lectio degasperiana firmata e pronunciata quest’anno a Pieve Tesino dall’arcivescovo Maffeis, e consenso bulgaro nel giudicare umilissima, pudicissima e rispettosissima la visita di don Ivan nell’abitazione perugina di Laura Santi, dirigente dell’Associazione Luca Coscioni malata di sclerosi laterale amiotrofica. Io non conosco Laura Santi, ma per via della mia vecchia militanza radical-pannelliana conoscevo Luca Coscioni e conosco da tanti anni, uno per tutti, Marco Cappato, in prima linea sul fronte del fine vita e del suicidio assistito.

 

Don Ivan e l’arcivescovo Maffeis sono la stessa persona, ma non sempre e non necessariamente, perché il 18 agosto a Pieve Tesino c’era l’arcivescovo, mentre a casa di Laura Santi pochi giorni prima c’era stato il semplice prete, trentino come l’arcivescovo, ma prete semplice. E come prete semplice l’arcivescovo si è presentato a casa di Laura, come prete semplice è rimasto con lei durante l’incontro, e come prete semplice se ne è andato a visita terminata. Le scarpe da ginnastica, la croce pettorale magari sotto la camicia e il motorino parcheggiato sotto casa avranno fatto il resto, più della vaga professione di fede deandreiana, pare di capire. La deandreiana Laura Santi ha poi raccontato alla stampa di aver saputo solo successivamente che il prete con cui si era intrattenuta era in realtà all’apice della gerarchia cattolica della città.

 

Prima di continuare la mia impopolare riflessione che per prudenza scrivo a 600 chilometri da Trento e a 200 da Perugia, una puntualizzazione a scanso di equivoci: non credo che don Ivan Maffeis, che conosco personalmente da parecchio tempo, abbia giocato, non dico in malafede, ma neppure con qualche retropensiero, la carta dell’umiltà, anche se era facilmente immaginabile che la cosa sarebbe finita sul giornale visto il ruolo politico di Laura Santi. Certo, un piccolo danno collaterale l’umiltà l’ha fatto, visto che ha fatto venire i sensi di colpa alla padrona di casa che infatti appena ha scoperto la verità ha esclamato: «Che figura! Non l’ho riconosciuto!».

 

Non voglio pensare male, quindi, così come non sospettai a suo tempo che Donald Bolen, vescovo di Saskatoon, Canadà, avesse voluto fare autopromozione vivendo in incognito per tre giorni e tre notti in mezzo ai clochard della sua città. Queste sono cose che i cultori dell’umiltà fanno generalmente a fin di bene, con le migliori intenzioni, ma le controindicazioni delle migliori intenzioni sono ben note... Certo è che sociologi, giornalisti e poliziotti a parte, negli altri casi aleggia inevitabilmente un vago senso di voyerismo, se non di parassitismo del dolore. E non è il basso profilo scelto dai misericordiosi di turno a rendere meno sospetti certi slanci caritatevoli. Anche il pudore, se è eccessivo diventa sospetto.

 

Narrano le cronache che don Ivan abbia dimostrato una grande propensione all’ascolto, mettendosi nella modalità “chi sono io per giudicare?”, e che quel giorno non abbia detto granché, se non cose misericordiosamente corrette e scarsamente impegnative: «Chi sta fuori da queste sofferenze deve inchinarsi a voi. Noi non dobbiamo mettere bocca su cosa fate, come vivete, come non vivete. Io non posso stare dentro i vostri vestiti o dentro le vostre scarpe. Io non posso nemmeno immaginare quello che prova lei».

 

Un povero prete, trentino trapiantato in Umbria per di più, che cosa può fare del resto per dare una mano all’associazione Coscioni? Niente, se non mettersi nei guai con le gerarchie cattoliche. E comunque chi se lo filerebbe, mediaticamente ma anche ecclesialmente parlando? Nessuno. Ma se invece di un semplice prete, a raccogliere la sofferenza e le istanze politiche di una militante non solo atea, ma pure sbattezzata, fosse un arcivescovo in alta uniforme, beh, qualcosa cambierebbe: se da un don Ivan ci si può accontentare di un ascolto empatico, se per don Ivan è tutto sommato facile cavarsela dicendo, come ha detto, che le questioni sollevate da Laura sono “problematiche”, da un arcivescovo, già direttore di giornale, già sottosegretario e portavoce della Conferenza episcopale italiana, successore a Perugia del cardinal Bassetti, è lecito aspettarsi un po’ di assunzione di responsabilità, di rischio, non foss’altro che uno sforzo di giustificazione o rivendicazione della posizione ufficiale della Chiesa sulle questioni bioetiche davanti a chi quei “dogmi” patisce sulla propria carne.

 

 Ma questo succedeva ai tempi del cardinal Ruini. Sotto la presidenza del romanissimo cardinal Zuppi le questioni cosiddette divisive vengono accuratamente evitate, bypassate in nome del volemose bbene. Molto eloquente la decisione dell’allora direttore di Avvenire Marco Tarquinio di rispondere a un lettore cattolico non abbastanza “à la page”, diciamo, che non aveva particolarmente apprezzato l’esordio di don Ivan a Perugia: «Gentile Direttore, il neo-arcivescovo Ivan Maffeis si presenta alla sua Diocesi di Perugia con queste parole: “Vengo fra voi per mettermi in ascolto di questa preziosa terra di santi e di bellezza, della quale chiedo con umiltà di divenire figlio”». E ancora: «Mi lasci dire [direttore] che anche il presentarsi come “figlio” della gente suona stonato, proprio perché la paternità è da sempre caratteristica peculiare dei Vescovi. Certo, un pastore deve anche saper ascoltare, ma il suo compito essenziale è quello dell’annuncio di Cristo morto e risorto, di far conoscere il messaggio cristiano a una società sempre più secolarizzata che non conosce più il fondamento della fede. Negli ultimi anni si nota la tendenza di molti pastori a presentarsi così, come ascoltatori della gente. Onestamente mi suona stonato». 

 

Effettivamente anche noi, laici, magari atei e magari pure sbattezzati, eravamo rimasti al pastore che guida il gregge, mentre nel frattempo il pastore a quanto pare ha preferito lasciarsi guidare dal suo gregge. L’importante, assicura papa Bergoglio, è che il pastore ''puzzi'' di pecora. All’allora direttore del giornale dei vescovi italiani la voce di don Ivan Maffeis era invece sembrata intonatissima. Umiltà e ascolto i punti di forza del “pensiero debole”, chiamiamolo così, del “chi sono io per giudicare?”. Non è un caso che Marco Tarquinio si sia procurato un seggio al Parlamento europeo facendosi portabandiera di quel pacifismo equidistante che dai tempi di Chamberlain e Daladier fa solo il gioco dell’aggressore.

 

Si domanda l’arcivescovo trentino in conclusione della sua peraltro a suo modo originale e ben scritta Lectio degasperiana (intitolata “Profezia degasperiana. Il deserto della democrazia e la rinascita della politica”) che cosa farebbe oggi De Gasperi, che cosa direbbe, quale sarebbe la sua parte. Cioè, tradotto, quanto e come riterrebbe di dover difendere l’Ucraina aggredita da Putin, e quanto e come assicurerebbe la sopravvivenza di Israele, anche se mai viene menzionato lo Stato di Israele e mai neppure viene menzionata l’Ucraina in una dissertazione che pur spazia tra Europa unita, pace e democrazia. Il relatore non si sbilancia, non prende il rischio di suggerire, anche timidamente, una risposta. Per umiltà, diranno i suoi fan. Sarà… ma è un’umiltà, sempre che ancora di umiltà si tratti, un po’ troppo umile, perché siamo una volta di più nella fattispecie “chi sono io per”.

 

Chi sono io per “azzardare” che oggi De Gasperi non potrebbe che trovarsi con Draghi e Mattarella? Chi sono io per escludere che oggi De Gasperi potrebbe trovarsi nel partito dei Tarquinio e dei Santoro? E allora a qualcuno toccherà pur dirgli: tu sei don Ivan, don Ivan Maffeis, trentino pinzolero, pastore della Chiesa di Roma,  membro del Dicastero per la comunicazione e membro del Dicastero delle cause dei santi, arcivescovo dell’arcidiocesi di Perugia – Città della Pieve, oltre che il prescelto a cui, sulla scia di Pietro Scoppola, Leopoldo Elia e Sergio Mattarella è stato affidato l'onore della Lectio degasperiana per l'edizione 2024.

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