Spettacoli e cultura, ci si ferma oggi per riaprire domani ma mettendoli al centro dell'agenda politica. Se tutto resterà come prima il virus avrà vinto davvero
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
“Non so gli altri, io preferisco avere una paga bassa, così quando mi saltano gli spettacoli ci rimango meno male”. Chissà se qualcuno degli “spettacolanti” che hanno manifestato in tutta Italia – Trento compresa – ha simpatia per quello stralunato del Mago Forest quando sbeffeggia pure l’amarezza tra una facezia e l’altra. Dovrebbero, perché nelle pieghe dell’assurdo c’è spesso la faccia più vera della realtà. È tuttavia probabile – anzi, probabilmente è certo – che la realtà di questo tempo a sipario forzatamente chiuso tolga fiato anche al comico fatalismo e alla dote in disuso dell’autoironia.
Fino a poco tempo fa ci si poteva sforzare di far buon viso a pessimo gioco di fronte a cachet artistici talmente poveri che il reddito di cittadinanza è affare da ricchi. Ora no. Adesso il tema è la sopravvivenza delle migliaia e migliaia di “attori e tecnici” col rosso in banca. E piange pure l’ampio indotto dello spettacolo dal vivo. Per la stragrande maggioranza di chi sta sopra, dietro e di lato ad un qualsiasi palcoscenico il compenso è spesso stato uno scompenso del portafoglio: la precarizzazione del presente e del futuro. Eppure la passione – il denominatore comune, l’ancora di salvezza intergenerazionale - ha sempre retto l’urto dell’ingiustizia. L’urto dell’ipocrita disinteresse politico per il comparto della cultura “dal vivo”.
È un disinteresse misurabile nelle promesse mancate: quanti nasi chilometrici. Le riforme? Scritte con l’inchiostro simpatico, (che sparisce). È il “chissenefraga” lungo decenni per l’unico vaccino che può debellare la pandemia dell’ignoranza, della presunzione, dell’arroganza, dell’asocialità, dell’egoismo, del razzismo, del peggio del peggio. Se viene messa in freezer la possibilità di proporre cultura e aggregazione attraverso lo spettacolo, la formazione, i corsi eccetera la solitudine si espande. Più e peggio del Covid. La coscienza critica regredisce ai livelli cavernicoli delle D’Urso, dei Giletti, dei Giordano e della folta ''compagnia ragliante''. Il “Delitto perfetto” non è più solo il titolo di un bel film di Hitchcock del 1954. Il “Delitto perfetto” si consumerà ogni giorno se durerà troppo a lungo lo stop ai teatri, ai cinema di città e di periferia, delle sale da concerto, degli spazi metricamente piccoli ma eticamente grandi dove si azzardano e dove si sperimentano intrecci tra discipline.
Oggi è uno stop obbligato: di fronte all’asfissia dilagante la contestazione è materia da cerebrolesi. Lo stop non sarà una tragedia solo se da oggi si inizierà a costruire ad un domani necessariamente diverso per modalità di offerta. Chi fa cultura sa come fare. Ma senza aiuto consistente non potrà fare. C’è un popolo che sgobba memorizzando e interpretando un copione. C’è un universo neppure sempre longilineo che perfino gode di una caviglia gonfia e di un polpaccio dolente dopo chilometri ballati ad ogni ritmo. C’è una moltitudine in tuta che sposta bauli carichi di cavi, che avvita e svita, che monta e smonta, che guida di notte per assicurare alle arti un nuovo giorno. C’è una folla che sbiglietta, che impila borderò, che paga fatture, che fa di conto spesso con magri tornaconti senza perdersi d’animo, che apparecchia ad ore antelucane perché dopo una performance intensa lo stomaco reclama in barba all’orologio e ai buoni consigli alimentari. C’è di tutto: la lista delle “categorie” indispensabilmente legate alla cultura – la cultura dello spettacolo – è tanto infinita quanto troppo poco nota.
Per costoro – sottolineando l’oro come segno di infinita gratitudine per il loro lavoro – il “delitto perfetto” non è un film. È il vissuto, anzi, il già vissuto, ma è anche la più drammatica delle prospettive. Le loro prospettive occupazionali e le nostre prospettive di progresso. Loro, gli “spettacolanti” erano faticosamente, caparbiamente, resuscitati dal primo lock-down. Si sono attrezzati con “garanzie di sicurezza” altrove sconosciute. Hanno messo in campo una fantasia organizzativa che nell’arte riesce più che in qualsiasi altro campo a fare di necessità virtù. Ora sarà di nuovo deserto: chiusura e batosta, lunario da sbarcare, progetti riposti nei cassetti, il capestro dei mutui, degli affitti e delle spese a fronte di sostegni che sostengono poco e non sosterranno mai tutti.
Sono tempi grami. Sono tempi dettati, imposti, dal virus. La sfangheremo solo mettendoci soprattutto del nostro in termini di coscienza e prevenzione personale finalmente matura. Ma già oggi il virus infetta la salute mentale. Un presente senza arte è il divieto di incontrarsi, conoscersi e rispettarsi: lo spettacolo è un “tramite” alla qualità sociale. Un presente senza arte desertifica il bisogno di comunità in maniera tale che al confronto il Sahara è un fazzoletto da taschino. Il deserto culturale è aridità dell’anima. Notte perpetua del senso critico, del pensare collettivo: strada spianata all’ignoranza, al peggio che può essere ancora peggio di quanto si è fin sopportato sui social, su troppa stampa e in tutta la Tv.
Certo, il virus detta le regole. Negare il virus, il pericolo, non si può. Non si deve. Lo facciano i masochisti e i nichilisti – i deficienti sotto ogni bandiera. Ma non ci tirino in mezzo perché li sputacchieremo prima di aver fatto un tampone.
Ma allora che fare con la cultura, con lo spettacolo? Beh, si potrebbe almeno considerare il lancinante vuoto obbligato come un’occasione. Stabilità, sostegno vero nell’emergenza ma poi previdenza, equità, certezze, equilibrio tra forti e deboli, tra pubblici e privati, eccetera. Questo c’è da fare. Questo non si è mai fatto nel “governo” sbilenco e parolaio di un settore che fa un Pil a doppia valenza: economica e sociale. C’è da riscrivere l’ordine di un’agenda nazionale dove la cultura è in fondo alla lista delle priorità. C’è da scrivere un’agenda locale di aiuti concreti ma anche di sviluppo. Oggi l’agenda è una sintesi di analfabetismo, arroganza e insensibilità di fronte ad un mondo culturale tramortito ma comunque vivo.
Nelle manifestazioni tutte uguali di ieri chi poteva recitare o ballare se n’è stato zitto. Fermo al posto. Immobile. È un modo, un’espressione, imprevedibile ed efficace. Il silenzio parla. Grida. Oggi gli “spettacolanti” non cercano applausi. Né complimenti per la compostezza e la serietà della protesta. Patiranno, eccome se patiranno. Lavoreranno perché le idee non vanno in quarantena. Il blocco, semmai, le moltiplicherà. Se quando torneranno in scena – perché torneranno, devono tornare – tutto resterà come prima il virus avrà vinto davvero. E noi tutti avremmo perso.