Proietti vive, perché “qualsiasi sciocco può fare qualcosa di complesso; ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
“Qualsiasi sciocco può fare qualcosa di complesso; ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”. Chissà se Gigi Proietti conosceva Pete Seeger. Chissà se sapeva del cantautore folk che con Woody Guthrie e Bob Dylan ha svegliato l’America dei giusti contro gli ingiusti. A forza di banalissimi giri di Do. Che Proietti sapesse o meno di Seeger poco conta. Rileggendo la metafora del menestrello americano non si può comunque non vestirla come un abito - calzante a pennello- sul grande attore. Il grande che se n’è andato lasciando con la torta, il bicchiere in mano e l’amaro in bocca chi giustamente si preparava a festeggiare i suoi ottant’anni.
“Ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”. C’è voluto Proietti per semplificare il teatro e nel contempo innalzarlo al suo più importante significato: la vicinanza. Un teatro per tutti. Un teatro di tutti. Un teatro caciarone, talvolta dosatamente eccessivo. Altre volte un teatro innamorato marcio della parola e dello scioglilingua. Oppure un teatro muto nel quale il tempismo di una smorfia, una sola smorfia, ha la forza narrativa che un intero atto unico può solo sognarsi. Un teatro per quelli che il teatro non lo bazzicano ma che se lo incontrano mentre barcolla con fare fintamente ma inimitabilmente ubriaco vorrebbero darsi di colpo all’alcolismo. Quello sano della sana ironia.
Un teatro per quelli che - al contrario - il teatro lo frequentano sì ma con troppa puzza al naso: più difficile e più autoreferenziale è, meglio sto. Di fronte al contagio di un mago dell’affabulazione credibile perché mai narcisista, di fronte a Proietti, era impossibile non cambiare idea. Era, è e sarà. Con lui, con Proietti, era impossibile non sentirsi ridicoli sul piedistallo fragile dell’intellettualismo di facciata. Impossibile non gettarsi, finalmente liberi e contenti, nella “popolarità” popolana. Quella genuina di una battuta, di un sonetto o di una mandrakata che fa trottare il buon umore sugli zoccoli di “Come va va”.
“Ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”. Ci è voluto Gigi Proietti per tradurre in semplicità “comunicante” la gratificante fatica dello studio certosino sulla prosa e sulla posa, sulle intonazioni e sulle distonie, sul movimento degli arti, sul parlare con gli occhi strabuzzanti di godimento artistico proprio e altrui. Ci è voluto Gigi Proietti perché Ettore Petrolini – (bene, bravo, bis) – si reincarnasse in un presente che vista la genia dei politici è anche pessimo futuro. Ci è voluto Proietti per resuscitare quel cosiddetto “teatro minore”, il prodomo dell’avanspettacolo, capace di demolire il “potere” con la ferocia della leggerezza. La pesantezza leggera del semplice “bene, bravo, bis” che sbeffeggia il tiranno.
Ci è voluto Gigi Proietti per fare del romanesco un esperanto, una lingua universale e amica perché depurata dal fastidio della spacconeria. Meno “mo’ te spiego” e più simpatia: che contagio. Eccolo il romanesco universale di Proietti. Un romanesco proletario da “pane al pane”, alternato all’allegria dei dialetti dell’Italia più verace e più vera ma anche all’italiano forbito dei classici che riempiono di “mestiere” ogni angolo del palcoscenico. Nel suo lungo e felice peregrinare artistico Proietti s’è mutato in mille personaggi, s’è calato in mille panni evitando il rischio di travestire e confondere anche l’anima. Cosicché l’anima di un istrione “semplice” è sempre emersa al primo impatto. L’impatto irresistibile con le sue gag, i suoi monologhi, le sue interpretazioni di materiale a volte ostico, le sue improvvisazioni. L’impatto con il Proietti uomo: un signore, nobile senza titolo nel proporsi e nel fare.
L’anima di Proietti. L’anima di un uomo credibile prima che un attore incredibile. L’anima di chi stabilisce sintonia e diventa centrale anche quando sceglie di fare la spalla. Riguardarsi il teatrino tra lui e Arbore (che fa l’improbabile lei) in una versione trash di Malafemmena (per altro di Totò). Lì – un esempio tra tanti – il rapporto tra genio e semplicità è al suo massimo. Il massimo di dolori muscolari e mascellari per eccesso di risata. Ma anche il “friccico nel core” della sorpresa e dell’ammirazione per quanta intensità i grandi di spirito oltre che di mestiere sanno regalare anche quando recitano l’elenco del telefono.
Mancherà Proietti. Mancherà il mattatore che personalizzava come nessun altro il copione della sua vita – e non solo la vita artistica - in teatro, al cinema o in Tv. Prima di Proietti, di mattatori ne abbiamo persi tanti - Totò, appunto, Eduardo, Troisi – ma in realtà non ne abbiamo perso nessuno. Vivono nei ricordi, nelle mosse, nelle battute che passano indenni le epoche e le mode. Vive la qualità ma vive più di tutto l’umanità di certi artisti rari. E dunque, come altri ma non tutti, Proietti – come si dice - vive.