Pappalardo, i gilet arancioni e i Napoleone con scolapasta in testa. Come cantava De Gregori “Non c’è niente da capire”
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
C’è un solo Pappalardo. Non si veste da aperitivo. A suo modo, era intonato anche quando sembrava sull’orlo di un colpo apoplettico. Un armonico Pappalardo. Anche nell’urlo. C’è un solo Pappalardo dunque. Di nome fa Adriano. Un uomo, una mascella. E una vena: grossa da far paura nel rincorrere l’acuto. Dimenticarlo? Un delitto. Adriano Pappalardo “si que vales”. Non c’è freezer che tenga. Al primo rigo di “Ricominciamo” una flagranza d’altri tempi e di altri ritmi ti rituffa nella storia.
“E lasciami gridare, lasciami sfogare”. E poi: “Io non posso stare seduto in disparte, né arte né parte”.
Ecco, né arte né parte. O forse la parte sì, ma in commedia. Dal Pappalardo che canta al Pappalardo che se la canta. Che le canta a tutti, dunque a nessuno. Antonio Pappalardo, general generico, è l’Uomo Qualunque due punto zero. Guglielmo Giannini, colui che nel 1944 registrò il marchio degli umorali per farne un movimento prima e un partito poi, non saprà più come e dove rigirarsi nello stretto della tomba. Lui, Giannini, partì dalla satira: seppur greve, il suo fu pur sempre umorismo. Certo, nel passaggio dalla battuta al Parlamento i danni furono tanti e durevoli. Tanto che sono durati fino ad oggi e probabilmente dureranno anche in futuro. Negli anni, l’Uomo Qualunque è diventato un mutante. È mutato nel peggio del peggio. Si è fatto “quaquaraquà”. Si è riprodotto in mille e mille varianti del nulla. Ha fatto titolo senza averne il titolo. I nulla-dicenti hanno confuso e devastato tanto la società quanto le istituzioni. Purtroppo, continueranno a farlo. Moltiplicandosi come i Gremlins ad ogni acuto delle crisi economiche. E di quelle morali.
Nell’esercito dei guastatori della dignità propria e altrui non poteva mancare un prototipo delle “truppe d’assalto”. Un alto in grado. Il generale Pappalardo, ex comandante di brigata, briga da decenni come un dannato per fuggire l’oblio dell’anonimato. Ci è riuscito fingendo di uscire di senno ad uso di telecamera. L’Itaglia, (occhio che non è un errore ma una dichiarazione di orrore), è fatta anche di gente apparentemente sana che abbocca all’insano. Perché? Perché non si fa fatica. Perché per dirla con il saggio De Gregori “Non c’è niente da capire”. Per imbambolare un presunto popolo c’è un vecchio trucco: non dire nulla di serio ma di dirlo con il piglio di chi la sa lunga. Non conta l’estetica e tanto meno conta l’etica. Puoi mostrare la panza, l’adipe dell’arroganza, il rutto dell’inconsistenza: per un po’ ti andrà bene perché è vero che la storia fa giustizia ma nel tempo che ci mette a decidere i danni crescono.
Eppoi gli umorali hanno la bocca buona. Il generale arancione viene dalla terra degli arancini. Fosse stato un ambulante della Vucciria quel suo gesticolare frenetico - un pupo ubriaco - lo avrebbe probabilmente arricchito. Ma Pappalardo non vende tipicità sicule, lui vende sé stesso. È un piazzista d’ego come se ne sono visti tanti grazie all’amplificazione finto-critica di un’informazione che deforma. Chi gli contesta un programma “pulp” – un’agenda che propugna il ritorno alla lira e altre scemenze - spende inutilmente tempo ed energia. Se un Napoleone di periferia gira con lo scolapasta in testa chiami gli infermieri, mica stai lì a confutare la sua teoria che il Covid 19 non esiste e che i morti siano vittime di un complotto.
Eccolo il punto, prendere su serio il general generico è un esercizio a perdere. Si perde tempo. Così come perde tempo a rincorrere i creduloni in gilet che resteranno innamorati di Pappalardo solo fino a quando un altro guitto non le sparerà ancora più grosse. Il generale demagogo, i carneadi replicanti che anche in Trentino si fanno portavoce incazzosi dei suoi proclami, gli arancioni senza maschera per provocazione autolesionista, la “pappalardite” con annessi e sconnessi. È vero, ignorarli pare brutto. Ma pare brutto anche galvanizzarli con la scusa di sputtanarli. Il giorno in cui ci si accorgerà che rispetto a certi fenomeni la lettura politica deve inchinarsi a quella clinica sarà comunque troppo tardi. Ecco perché quel che intriga del generale non ha nulla a che vedere con le sue stramberie programmatiche.
Fuor di programma, dunque, esplode la vera essenza del generale in questione. Ed è un’essenza inquietante, fatta di una considerazione sconsiderata di sé medesimo anche quando si cimenta nelle arti più nobili. Pappalardo, infatti, compone pure musica. Dedicarsi al pentagramma dovrebbe facilitare l’armonia nei modi e nella sostanza? Non per il generale che senza alcuna autoironia salvifica si paragona a Mozart e Beethoven, che stressa ignorato Paul Mc Cartney per fargli sponsorizzare una sua sinfonia beatlesiana. Chi si loda, si sa, si imbroda. Ma per chi si loda con uno scolapasta in testa che proverbio c’è?
L’inimitabilità di Pappalardo. I comici veri, dagli Albanese ai Crozza passando per tanti altri ottimi caratteristi, alzeranno la bandiera bianca della resa. Una resa al generale in guerra con tutto il mondo che non sia il suo piccolo mondo arancione. Come fai ad ironizzare su un personaggio che si imita da solo? Di fronte al Pappalardo “originale” anche Cetto Laqualunque va in tilt. Si domanda, senza risposta: “Sono io che imito lui o è lui che imita me?”. Allora, cari comici, eccovi una via d’uscita. Imitate quell’altro Pappalardo - il cantante Adriano - dicendo però che state facendo il verso al generale. C’è anche la canzone giusta. Si chiama “Segui lui”. Dice così: “Dopo le follie che hai vissuto insieme a me le altre vite ti sembrano mediocri”. Scommettiamo che il generale ne uscirà un po’ confuso?