Merler e Ianeselli, stili a confronto: ecco perché ha perso chi vedeva “i comunisti” accampati sotto le porte di palazzo Geremia
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Mi si dirà che è troppo facile fare “l’indovino del giorno dopo”. Per azzeccare il pronostico delle elezioni per il sindaco di Trento non c’era tuttavia da arrovellarsi. Né travestirsi da Mago Merlino. Bastava avere occhi e orecchie aperte. Ma anche cuore e orgoglio di sana cittadinanza. Bastava sorridere di un immagine maldestramente distorta della realtà di Trento. Per capire dove poteva arrivare Ianeselli e dove si sarebbe fermato Merler bastava darsi un criterio di valutazione “a pelle”. Un criterio che nulla ha a che vedere con il gioco del sondaggismo. E nemmeno con la dotta capacità di lettura sociologica.
Veniva utile, istruttivo, un criterio spurio - banale perfino - ma indicativo degli umori e delle scelte nell’urna. Il criterio? L’empatia, che non è esattamente la simpatia ma che sicuramente non è l’antipatia della presunzione che non si dà limiti.
Ianeselli e Merler: due antipodi. Prima che due programmi, due culture opposte. Nello spalancare al primo la porta di Palazzo Geremia l’elettore avrà di certo tenuto conto delle profonde differenze nei contenuti offerti dai due contendenti. E delle forze che li sostenevano. Ma c’è anche dell’altro. Un “altro” che intriga perché forse e finalmente resuscita nella politica quella categoria che spesso è la più dimenticata, la più sottovalutata, e che invece alla politica dà il senso più profondo. Probabilmente salvifico.
Quale categoria? La normalità. La politica – oggi più che mai per quanto grande è il vuoto nel quale drammaticamente immersa – ha urgenza di normalità. Ne ha un bisogno estremo, vitale. La normalità veste anche un abito. La normalità ha un’estetica. L’abito può essere casual oppure sartoriale, ma se lo indossi goffamente, sei fregato. Chi ti incontra, se ne accorge subito. Non occorre essere esperti di moda per intuire dove difettava l’abito delle elezioni appena archiviate. L’abito elettorale di Andrea Merler era di un’eleganza curata: dalla punta delle scarpe alla pochette. Ma era fin troppo studiato. Era in qualche modo respingente. Potrai anche essere un bel giovane di granitiche e ambiziose certezze, ma se immoli te stesso all’ansia da prestazione semini “distanza”. È come seminare gramigna in una fase in cui il Covid ha insegnato anche ai più restii l’importanza della “vicinanza”.
Chissà, forse si è aggirata – forse si sta solo faticosamente aggirando – la boa mefitica della politica ansiogena. Vale in campo nazionale, dove il salvinismo vira rapidamente verso un cabaret ripetitivo e meno redditizio. Valeva anche per il voto a Trento. Una città che è sì ai confini, ma che non è collocata in un altro mondo. Tanto più se si tratta di un mondo immaginario dove tutto è buio. Merler non sembrava rendersene conto. Ha seminato dosi massicce di rancore e sicumera. Di inutile rancore. Di inutile sicumera. Lo ha fatto, per altro, nell’evidente contraddizione, confusione, di chi si illude di poter far partire la storia sempre e solo da sé stesso. “Arriverò io e cambierà tutto” era un concetto base nell’eloquio di Merler. Alle rivoluzioni, ai taumaturghi da comizio, non credono nemmeno i più incalliti e anacronistici dei rivoluzionari. All’evoluzione di un’amministrazione comunale credono invece in tanti. Tra i tanti, tantissimi di coloro che si sono fidati molto più di Ianeselli che di Merler.
Sono elettori convinti che anche una vita di privilegio nei servizi e nel vivere quotidiano - qual è indubitabilmente la vita di chi vive a Trento - possa e debba ancora migliorare. Ma sono cittadini indisponibili agli slogan vacui sulla necessità di “fare tabula rasa” ad ogni elezione. “Evolvere” – nell’amministrazione di una città che pur piccola è pur sempre complessa - significa stare con i piedi per terra senza negarsi il diritto-dovere di non volare raso terra. Evolvere vuol dire prendere il buono che c’è, difenderlo ma impegnarsi per farlo ancora crescere. Più nell’equità che nella dimensione. Evolvere è non nascondere i limiti e le carenze nella gestione della cosa pubblica. È, al contrario, l’obbligo di non accontentarsi, la volontà di modificare con realismo e pragmatismo. Ma senza stilare imbarazzanti liste di proscrizione.
Ma si torna sempre lì. Si torna all’improponibilità delle immagini distorte della città. Si torna all’improponibilità di denunce sulla “cattiva amministrazione” portate sempre all’estremo. Non paga la drammatizzazione di situazioni certo difficili ma per nulla catastrofiche. Non pagano i toni stridenti ed esagerati. Qui toni infastidiscono chi - a Trento - urla solo se l’Itas vince o se in un bosco trova “la brisa”. Distanza insomma: eccola la chiave che faceva capire prima di aprire le urne. Distanza siderale tra il “volume” sempre troppo alto della campagna di Merler e l’indole trentina ai toni più sommessi. A volte fin troppo sommessi e soporiferi: ma questa è un’altra storia. Distanza anche nel “copione” prevedibile di una campagna elettorale dove Merler si è attaccato ad un simbolismo che per fortuna del buon senso e della logica negli anni ha perso mordente. Il cane, i bambini. Davvero non poteva lasciarli l’uno ad abbaiare e gli altri a giocare? Davvero doveva esibirli?
Quanto al copione, poi, non è dato sapere se Merler se lo sia scritto da solo o abbia avuto un ghost-writer. Fatto sta che dalla Rivoluzione di Ottobre ad oggi un po’ di tempo è passato. Eppure Merler vedeva “i comunisti” accampati sotto le porte di palazzo Geremia, guidati dal Lenin della “Cgil”, (comunista solo per automatismo merleriano, come tutti i sindacalisti, ma nei fatti di tutt’altra estrazione ideale). L’anacronismo è una brutta malattia. Merler non deve aver fatto alcun tampone per prevenirla. No, la destra con vaghissimo “scappellamento al centro” non ha perso solo per quel che ha messo in un programma che quasi nessuno ha letto così come quasi nessuno ha letto quello di Ianeselli. La destra ha perso, e male, perché la Trento che dipingeva come in balia del peggio - sociale, culturale, economico – semplicemente non esiste.
Si può mai fare nel 2020 una campagna elettorale da 1948? Si, può fare, ma solo in quei film che proiettano i protagonisti in altre epoche. Ma che sono film fatti per ridere, non per conquistare un Comune. E Ianeselli? Il contrario. Un inno alla pacatezza che ha centrato il “mood”, lo spirito, di questo tempo. Un tempo amaro, difficile, a tratti perfino angosciante. Un tempo di incertezze sul presente e sul futuro che impone prima di ogni altra cosa la fatica di trovare spazi possibili alla serenità. Questa attitudine alla serenità nel confronto – che non vuol incartare i problemi nella nebbia delle promesse – Ianeselli l’ha praticata dall’inizio alla fine. Anche per questo ha vinto. Hanno pesato nella vittoria, eccome, anche i molti sorrisi di quelli che lo hanno sostenuto. Ha vinto chi non è stato al gioco della drammatizzazione.
E ora? Ora ci si aspetta davvero che la pratica continui. Serenamente sì, ma con scelte comprensibili, coraggiose, trasparenti. A Ianeselli adesso viene paradossalmente da suggerire di mettere anche un po’ di ansia nel suo “fare”. L’ansia di tenere sempre gli “ultimi”, i “più deboli” in testa al suo operare. A Trento ce ne sono purtroppo tanti. E nemmeno tanto nascosti dalla crisi che morde. L’ansia di risolvere i loro guai – quella sì – è un’ansia salutare. Così come lo è l’ansia di mettere in equilibrio le generazioni, pagando prima di tutto il credito di futuro che vantano i giovani. Per il resto – per i mega progetti - si può anche aspettare. Serenamente.