Il gelo del teatro Sociale che Brachetti prova a scaldare: ma un clic non sarà mai una clac
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine. Nome chilometrico di poeta ottocentesco. Un nome che non finisce mai per una massima breve: prima tornerà a materializzarsi meglio sarà. “Lo spettacolo è dello spettatore”: questo diceva lo scrittore. Nel collegarsi dopo prenotazione e parvenza di normalità al sito del Centro Santa Chiara per passare un’ora e spiccioli con il trasformismo eccellente di Arturo Brachetti il Sociale, nel senso del teatro, ha mancato giocoforza il sociale, nel senso della comunità. Ma non è colpa di Brachetti. Tantomeno del Santa Chiara. È purtroppo lo stato dell’arte in questo periodo di privazione precauzionale della star bene con le proprie e altrui emozioni. Da condividere.
Più nostalgia che divertimento dunque. Più disagio che trasporto: sono strani sentimenti, realissimi sentimenti alquanto scomodi, quelli suscitati dallo show “in scatola”. Che sia un Pc, un tablet, un cellulare o una smart tv poco conta: sempre distanza è. Ecco, la distanza. Brachetti è indubitabilmente unico nel rendere semplice l’immane complicanza di trucco e parrucco: lui sa giocarci con una velocità supersonica, da meritata gloria planetaria.
Ma l’arte sopraffina di un manipolatore di magie – tra infanzia e sogno - svapora nell’obbligatorietà del vuoto. Nel teatro vuoto, nel Sociale vuoto, il buio resta pesto anche quando le luci sono tutte accese. Anche quando si spengono e fari puntano il palco. Brachetti fa il Brachetti. Pur senza granché di sforzo innovativo – (“numeri” già visti, ma non per questo meno belli) – prova a riempire gli spazi del Sociale, prova anche a farne scoprire gli angoli meno noti. Ma gli spazi del teatro – il teatro tutto – sono gelo. Un gelo che non si quaglia con il calore di una simpatia da folletto, Un’abile, geniale, simpatia affidata ad un ciuffo ribelle su crapa pelada. Non intiepidisce il freddo tutorial inarrivabile dell’uso creativo di un fazzoletto o di un cappello col buco. Non scaldano nemmeno quei cambi d’abito in un lampo che fulminano ogni tentativo di rendersi conto della tecnica “travestitoria”.
Ci mettono del loro anche gli amici dell’Arturo, video invitati al suo spettacolo in esclusiva per Trento. Luca Bono illude con giovane e ormai navigata maestria che in maledetto “buffering” di ogni collegamento – la rotella che fa andar di matto quando la linea vacilla – si possa domare ricorrendo alla fantasia. I Lucchettino fanno avanspettacolo guardando più indietro che avanti e paradossalmente quel loro profumo d’antico ha una flagranza moderna. Filiberto Selvi poetizza la magia.
Tutti, insomma, si impegnano a rendere credibile oltre che godibile l’impegno del Centro Santa Chiara a non privare il pubblico della tradizione consolidata di un Natale e di un Capodanno in platea e su un palco.
Eppure a dominare la scena non è lo spettacolo ma è la fatica enorme di normalizzare l’anormalità. No, se l’arte non ha il “fisico” si fa smidollata anche quando è nel suo genere – (il genere di Brachetti) – di qualità superiore. Il “fisico” dell’arte non è l’allenamento serissimo, il mestiere e spesso la genialità del protagonista artistico.
La fisicità irrinunciabile dell’arte è il contatto. A teatro, in una sala da concerto, al chiuso come all’aperto, in uno spazio grande e solenne come in quello angusto e improvvisato, il contatto tra chi “dà” e chi “riceve” – tra artista e pubblico – è essenza. Un’essenza che non si può sostituire con un’assenza immolata alla tecnologia pure utile dello “streaming”.
Brachetti è il re dei trasformisti ma non può trasformare il limite, non può colmare la distanza ormai siderale tra spettacolo e pubblico. Nel suo “Che viaggio in teatro” – così hanno chiamato l’evento - quello che manca è molto, troppo di più, di quel che c’è.
Quando Brachetti fa il Cicerone solitario tra sotterranei, camerini, palco, palchi e platea evidenzia anche senza volerlo – (lui è lì per divertire) – la tristezza del silenzio, il magone dell’irrealtà. Il teatro è la chiacchiera del prima e del dopo spettacolo, il brusio che aspetta l’apertura del sipario, l’applauso che fa riaprire il sipario per i ringraziamenti, il “clima” che condiziona chi recita, chi suona, chi performa ma anche chi è lì per farsi contagiare da qualche emozione.
Il teatro è un incrocio di anime e di storie di cenni e di sguardi, magari di colpetti di tosse e imbarazzato arrivo tardivo al proprio posto. Lo spettacolo è un mezzo che può diventare anche un fine – culturale – ma se non lo diventa fa lo stesso. Se invece lo spettacolo non può essere condivisione, presenza, vicinanza non fa lo stesso. Non è lo stesso.
Le piattaforme, i cartelloni virtuali e tutto quanto sta mobilitando in esperienze di “resistenza” l’universo artistico e culturale tamponano una crisi drammatica. Ma un tampone segnala, non cura. La cura – unica, irrinunciabile – è il “ritorno” alla fisicità collettiva dello spettacolo il più presto e il più sicuro possibile.
Per ora c’è da accontentarsi e c’è da ringraziare per la caparbietà, bazzicando la sempre più ricca, variegata e un po’ disperata offerta on-line. Ma mai abituarsi alla novità che fa di drammatica necessità una virtù. Mai credere che un clic possa essere uguale ad una clac.