Il Festival specchio del Paese e allora ecco che il Sanremo pandemico è un inimmaginabile “altro”
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
“Perché Sanremo è Sanremo”. Il motto, volendo anche “mottivetto”, ti si conficca ancora oggi in testa, senza lasciare scampo. La sigla del Festival 1995 – autore il maestro musicista Pippo Caruso – è stata e sarà un “sempreverde” promozionale. E’ un identificativo della parata musicale più amata o più odiata ma mai ignorata. Un allegro miracolo di sintesi.
L’altro Pippo, il siculo Baudo, vanta nel cognome una radice tedesca che pare significhi baldo. Con baldanza, infatti, il Pippo presentatore ebbe l’intuito di condensare in quattro parole quattro – “perché Sanremo è Sanremo”, appunto - un’intera enciclopedia di filosofia dello spettacolo. Una filosofia declinabile nel sociale, nel costume, nella cultura e a volte anche nell’incultura. Eccetera.
“Perché Sanremo è Sanremo” è stato. Forse sarà di nuovo. Ma chissà quando. Quattro parole torneranno a essere la spiegazione di un fenomeno articolabile in mille e mille “analisi”. Un fenomeno – Sanremo - che quando viene affidato ai ragionamenti e agli arzigogoli narcisisti dell’intellettuale perde di significato nello stesso momento in cui gli si cerca un senso. Sanremo, insomma, rischia di smarrirsi nell’inutilità di quei “saggi” declassabili senza vergogna nella categoria delle “pippe”.
“Perché Sanremo è Sanremo” forse tornerà ad essere un incipit popolare, universale. Tornerà ad essere l’Inno di Mameli” in salsa leggera. Quella musica leggera unificante e che, quindi, così evanescente non è stata e non sarà mai.
“Perché Sanremo è Sanremo”: l’inno che appena lo senti ti metti sull’attenti anche rimanendo sdraiato sul divano. Perché? Perché ti annuncia che ogni anno – volenti o nolenti come cantano Elisa e il Liga – scocca l’ora di specchiarsi nell’Italia che in quattro minuti di canzone proietta il meglio, il peggio e anche il così così di sé stessa.
Quando “Perché Sanremo è Sanremo” tornerà ad essere la sigla del Festival, sarà il segno di una ritrovata, agognata, normalità. Una normalità che in ogni caso costringerà a una forte dose di anormalità. Quel “Parappappappararara” oggi – però - non si può: suonerebbe male. È troppo semplice, troppo ottimista. Il Festival pandemico è un inimmaginabile “altro” . E’ altro rispetto alla sua storia e alle sue abitudini collaudate.
Si impone dunque un nuovo slogan. Di più, si è obbligati a una domanda piuttosto che ad una affermazione. “Come Sanremo?”: eccola la domanda. Come saremo tra pochi o tra tanti mesi. “Come Sanremo?” quando il festival che coraggiosamente prova a spacciare il “vuoto per pieno” avrà chiuso la sua maratona encomiabile per caparbietà. Questo oggi è giusto, obbligatorio, chiederci.
Un brano famoso – (maledetto Liga) – titola “Tra palco e realtà”. Sì’, ma se invece ci si trova sospesi e disagiati tra “palco e irrealtà” anche la salubre voglia italica di canticchiare latita. Che l’audience calante sia un’amara conferma?
Un palco che si riempie di autori e interpreti che riescono a non dare di matto nell’obbligo di cantare alle sedie. Il fiore matto – Fiorello – che parla al vuoto pur senza parlare a vuoto. Il genio è genio e quel “Su i braccioli” rivolto alle poltrone rosse ne è la prova. Ma anche il re degli intrattenitori ha il sorriso spaventato di fronte al pericolo che il surreale possa diventare la normalità, che l’espediente necessario possa diventare un “metodo”. O peggio, un’alternativa.
“Come Sanremo?”. Per quanto tempo ancora chi fa arte “viva”, dal vivo, sarà condannato all’applauso finto, registrato? Per quanto tempo si dovrà sopportare l’angoscia del cortocircuito meno considerato ma più importante: il cortocircuito di un virus che si è preso tutta la scena.
Lo spettacolo – tutto lo spettacolo: bello o brutto, dei grandi e degli scarsi – è un flusso. È un flusso vitale, di andata e di ritorno. Un flusso di intrecci che parlano a voce alta anche nei silenzi. Energia dal palco alla platea. E viceversa, ma con segnale potenziato.
Se il flusso si interrompe in un black out precauzionale sì ma tragico, quel che resta è un surrogato che intristisce. Se mai ci si dovesse abituare al fatto che si può fare spettacolo in maniera metafisica – lo streaming che giocoforza impera – non ci si salverà più dalla pandemia culturale dell’isolamento progressivo, della solitudine singola e collettiva.
Ecco, il “Come Sanremo?” di quest’anno non è un quesito da rimandare al futuro. C’è l’urgenza di accendere finalmente i fari politici e istituzionali su un presente drammatico per chi lavora sul palco e per chi – tantissimi - permette agli artisti di lavorare. C’è l’urgenza di considerare gli addetti allo spettacolo non solo una dimenticata categoria economica quanto una categoria irrinunciabile dello spirito.
Senza pubblico non ci può essere spettacolo perché lo spettacolo è anima sopra, sotto, dietro un palco. Anche un Fiorello che indubbiamente giganteggia anche nel gigioneggiare è un’immagine paradigmatica di sofferenza, di divertimento amaro, di leggerezza mitica che finisce con l’amplificare la pesantezza della situazione.
Sanremo: i mezzi finanziari, la storia, il fascino, la noia, gli ultimi come furono Rossi e Zucchero che si sono fatti primi e i primi – (Jalisse) – inesorabilmente ultimi. Sanremo 2021 in cui Amadeus non è Mozart ma comunque suona bene perché condisce l’impegno improbo con l’umiltà. Sanremo che quest’anno ha più valore perché forse riuscirà a far meditare più di quanto non siano riusciti a fare appelli, tentativi di sopravvivenza, mobilitazioni, disperate richieste di aiuto venute da ogni isola della Penisola creativa.
Ma la domanda resta: “Come Sanremo?”. Come saremo non tra un anno ma domani. Come diventeremo se saremo costretti ancora a lungo all’astinenza dalla fisicità di un rapporto con lo spettacolo che prima di tutto rapporto tra persone. Che è sociale prima che culturale.
“Sanremo messi male”, eccola la risposta. Se c’è un modo per evitare l’insopportabile condanna al virtuale – (e di modi indubitabilmente sicuri il settore ne ha indicati vanamente tanti ricevendo in risposta il menefreghismo del promettifricio ministeriale) - è ora di sperimentarlo. Che è già tardi.