Centrosinistra, manca empatia, c'è distanza dalle persone e in 5 anni non è stato abbozzato nemmeno un progetto: aspettando Godot a decidere saranno sempre i soliti?
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Auguri in archivio. In archivio quelli sinceri. In archivio quelli fasulli del copia incolla dalla rubrica del cellulare e di WhatsApp. Perché allora resuscitare gli auguri delle feste per dare il là ad un pezzo che vuol parlare d’altro? Perché l’uso malsano di certo linguaggio dottamente masochistico va purtroppo ben oltre il Natale.
E' un linguaggio che segnala più di mille altri spunti possibili i limiti di chi avrebbe concetti seri e condivisibili da esprimere ma ignora (forse e purtroppo perfino volutamente) il modo di farli comprendere fuori da un cerchio ormai tanto ristretto da diventare un puntino indistinguibile.
Veniamo all’esempio. Il 22 dicembre la segretaria prolungata del Partito democratico trentino posta su Facebook il seguente augurio di cui ci si limita – inquietati più che stupiti, a un passaggio: “Il nostro Natale, se ben vissuto, ci spoglia. Ci spoglia, dalla ormai consueta centralità dell'affermazione del nostro 'io' personale, dal nostro 'io o noi' di comunità piccola contro le altre, dalla nostra tensione a prevalere, dal non considerare che gli sguardi e le vite dei nostri simili sono gli sguardi e le vite nostre".
Nel rozzo universo dei semplici il concetto (sacrosanto) avrebbe avuto un vocabolario terra terra, due parole appena: “Basta egoismi”. Ma né la sintesi né la semplicità sembrano essere la prerogativa di un centrosinistra che è appena entrato nell’anno elettorale provinciale con un drammatico ritardo di idee, metodi, novità (ci si accontenterebbe anche di quelle piccolissime), protagonismo.
I volti di chi fa e disfa (più disfa che fa) sono rugati da un’onnipresenza geologica? E passi. Se nei partiti senza più uno straccio di spartito, una gioventù precocemente invecchiata media fino all’avvitamento non si può certo pretendere che imponga cambiamenti.
Quello che non può passare è invece il mal di piedistallo, una sindrome virale più pandemica del Covid. E' sempre in cattedra l’incerta sinistra del centrosinistra. Per parlare parla, ma si parla prevalentemente addosso, rivolgendosi con piglio patologicamente professorale a chi (sempre meno) è già sulla stessa lunghezza d’onda. Rivolgendosi cioè a chi non ha bisogno di essere convinto ed è invece convinto che chi non capisce l’ostrogoto sia da abbondonare al proprio destino di qualunquismo a destra.
Il linguaggio dunque. Almeno il linguaggio. Non si dice che il centrosinistra debba per forza parlare come mangia anche perché se mangiasse sushi anziché polenta sarebbe comunque in difficoltà. Tuttavia una dieta che metta al centro il calore piuttosto che le calorie potrebbe provarla. Il calore in questo caso è l’empatia. E l’empatia ha bisogno, oggi più che mai, di un’attitudine onesta a praticare più il dubbio che le certezze (che a sinistra sono per altro sempre più incerte).
Praticare il dubbio non può essere un espediente: il gioco durerebbe poco e finirebbe male. Proporsi davanti al leghista, al fratello o alla sorella d’Italia con la presunzione di chi anziché interrogarsi sulle cause dell’onda di destra crede di cavarsela demonizzandola significa moltiplicare fratelli e sorelle d’Italia e leghisti. Per poi meravigliarsi se crescono.
Può essere (anzi è sicuro) che sul piano dei contenuti, dei valori e dei diritti si confrontino due mondi agli antipodi (chi scrive su questo è sicuro). Ma siamo sempre lì, al punto di partenza. Per difendere valori e diritti non basta affermarne l’importanza. Bisogna abbandonare le aree protette, le riserve e rischiare la scomodità, gli imbarazzi e i pericoli di una battaglia ideale giocata in campo avverso: il bar dove si gioca a carte e si “porcona” casualmente al mondo, la piazza e la strada (anche quella frettolosa, confusa e scarsamente recettiva), la fila insieme a chi fa la fila davanti agli uffici, la frequentazione non episodica e non casuale (o peggio, strumentale) della preoccupazione sconosciuta di una sala d’attesa (eterna) di un pronto soccorso.
Ci sono troppi posti dove il centrosinistra non c’è, forse c’era stato e dove difficilmente ci sarà. Ci sono troppi luoghi dove è necessario esserci per ascoltare anziché per sentenziare. Ci sono troppi luoghi dove l’esercizio del dubbio e, insieme, un vocabolario più 'normale' possono, forse, determinare sintonie e, chissà, fiducia.
Che poi il tema non è solo quella dei luoghi, di una politica incapace di ritrovare il gusto di un dimenticato “a tu per tu” che prima di chiedere un voto domanda se c’è da tagliare la legna, fare la spesa o andare in farmacia.
Il tema è (volenti o nolenti gli onnipresenti) anche quello dei volti. In vista delle elezioni provinciali un centro-sinistra che per cinque anni se n’è infischiato di cercare una riconoscibile identità corre ora affannosamente in cerca di Godot (il candidato).
Si cerca quel candidato che non ci si è preoccupati di individuare (meglio sarebbe dire costruire) per un’intera legislatura. Una legislatura fatta dall’incomprensibile opposizione di “solisti” in competizione più tra loro che con un fugattismo devastante sì ma almeno chiaro e coerente con la sua missione di regresso.
Bene, come la si cerca la difficile speranza di una contesa che non sia una resa se non si è mai coltivato un terreno che potesse dare come frutti nuove idee, sfide credibili e coraggiose. Davvero si crede che possano farsi avanti persone capaci di interpretarle queste sfide e queste nuove idee se le si sottoporranno ancora alla “bollinatura” del “do ut des” in un tavolo dove il più giovane era già vecchio quando il sottoscritto oggi quasi settantasettenne s’illudeva che Lotta Continua fosse la via pacifica alla rivoluzione (Boato, per dire, mi cazziava allora come mi cazzierebbe oggi)?
Oggi non si pretendono rivoluzioni ma un po' di fantasia non guasterebbe. E' vero, non c’è parallelismo, né automatismo, tra anagrafe e fantasia. Tuttavia il prurito resta quando si prova ad immaginare un Boato, un Raffelli, un Pietracci, una Maestri (e sotto il tavolo Dellai e Rossi) che rovistano nei loro cilindri per far uscire un nome inaspettato anziché i reciproci veti, le reciproche fisime, i reciproci calcoli di un confronto che i trentini (quelli interessati, cioè pochi) seguono con stanchezza di una disillusione che esclude qualsiasi reazione.
Ci diranno, seccati, che al tavolo (cavolo, almeno trovatevi attorno ad uno di quei caminetti in auge nell’era scudocrociato/socialista) ci sono pure i futuristi al passato, i vivaisti renziani che erano sparsi e dispersi in partiti dove contavano poco, i ragazzi d’azione (non mazziniana) e quelli che fanno i campi base in pianura forse perché si fa meno fatica a scalare. Sì, il tavolo è affollato e produrrà tanti distinguo da non raccapezzarsi: prima i contenuti poi i nomi, prima i cognomi dei nomi, sì ma partiamo da Nomi, eccetera.
Alla fine – drammaticamente tardi se è vero che cinque anni fa si sapeva che si sarebbe votato nel 2023 – un nome verrà. Verrà un nome ma latiterà quel metodo di vero coinvolgimento che per il centro sinistra avrebbe dovuto fare differenza e che è stato, invece, colpevole indifferenza.
Chi si immaginasse un candidato “venuto dal basso” si faccia vedere da un buon medico. Il tavolo del Muse (paleontologia di nome e di metodo) produrrà. Chi vivrà vedrà e probabilmente vedrà la destra ridere. Noi ci saremmo accontentati di qualche tavolino. Dove? Davanti alle Rsa cui la Provincia vuol ridurre in personale, in un qualsiasi ambulatorio che ti visita quando sei già defunto e nei cento altri posti dove far politica significa “esserci” e scornarsi. Ah sì. Si dimenticava. La politica (specie quella a sinistra) si scorna fin troppo. Nei circoli, nei congressi quando si fanno di malavoglia, nelle riunioni ormai quasi clandestine. Ovunque, purché lontani dalla realtà.