Altro che Spotify, ''Spot che fai (?)'': l'imbarazzante campagna elettorale dei video fai da te, tra fissità e improvvisazione
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
C’è Spotify. Un mondo di musica. Da scaricare. Prima gratis, per accalappiare. Poi a pagamento. C’è “spot che fai” (guardandoli, verrebbe da chiudere il virgolettato con un punto di domanda). Sono sempre gratis, per il pubblico cliccante. Sono onerosi per chi si propone davanti ad una telecamera versando a Facebook il necessario quantum per diffondere in ogni dove il suo messaggio. “Spot che fai” (?) è tutt’altra musica rispetto a Spotify. Sulla piattaforma internazionale spicca la varietà dei generi. Nella forma piatta dei promo personali in cerca di voto impera il mono-tono. Le elezioni non fanno miracoli. Arranca quasi sempre chi deve presentare sé stesso, le proprie idee ed il partito di appartenenza nei pochi secondi di uno spot casareccio.
La buona volontà non basta. Ci vorrebbe un minimo di mestiere. O una regia non accondiscendente. Il linguaggio del corpo viene prima delle parole. La leggerezza, l’immediatezza, di un sorriso o di una battuta è certo preferibile alla pesantezza di un imbarazzato sguardo fisso verso il nulla. La capacità di “andare a braccio”, anche sbagliando, è di sicuro meglio dell’imbarazzo di chi sciorina un testo studiato a memoria o peggio letto a distanza. Come? Scrutando un “gobbo” o abbassando l’occhio con impacciata fatica su un foglio che non è inquadrato. “Spot che fai (?)” - così come lo si può monitorare in questo delirio di slogan che mette a prova la tenuta delle batterie di un qualsiasi cellulare – ha dunque un che di masochista. C’è, infatti, un masochismo inconsapevole nell’imperante mistica del video autoprodotto. O mal prodotto.
Negli adrenalinici tempi elettorali che abbondano tanto di candidati quanto di confusione, nel distinguerli l’empatia è un criterio indubitabile di selezione. Quello che hai da dire è importante. Gli ideali di riferimento fanno ovviamente la differenza. Ma probabilmente il “come lo dici” vale più di quello che dici. Questa regola banale diventa ancor più importante nel momento in cui c’è un tempo minimo – il tempo tiranno di uno spot, appunto - per giocarsi le proprie carte, le proprie speranze, elettorali. Ebbene, nell’universo perfino troppo incravattato di “spot che fai (?)” l’unica regola che emerge è la comunanza noiosa delle ritualità, l’assenza generalizzata di fantasia, un’estetica uniforme che paradossalmente rischia di annullare proprio quelle differenze che i diversi candidati vorrebbero dimostrare.
Sinistra, centro e destra si offrono al pubblico “social” alternandosi spesso sullo stesso sfondo. Piazza Duomo, ad esempio, è un must scenografico. Le variazioni? Piazza Santa Maria e Piazza Dante. Ma non è un fatto di mappa, perché qualcuno – pochi per la verità – si spinge fino alla periferia per allestire il suo set promozionale. Il fatto è quella scopa invisibile ma alla fine visibilissima che nascosta dietro la schiena limita ogni gestualità. “Spot che fai (?)” appare come una condanna. Una schiera folta di “impalati” sembra davvero convinta che l’abito faccia il monaco (con buona pace del proverbio). Capita così di vedere un giovanissimo democristiano, (scudocrociato che profuma di fresco piuttosto che di naftalina museale), che nasconde l’età nel doppiopetto e nell’inamidato. Non si dice che i ragazzi debbano per forza essere scapigliati dentro una t-shirt, ma se si confondono con i nonni il bello identitario della loro gioventù va a ramengo.
La loro scommessa elettorale rischia di invecchiare nell’arco di uno spot. Che dire poi del candidato funerario? In uno spot si è visto un “navigato” del consiglio comunale che nel chiedere l’ennesimo atto di fiducia all’elettore ha una verve catacombale. Non si dice che l’allegria debba essere per forza una dote, ma suvvia un po’ di sforzo. Al contrario, c’è anche chi una ne pensa e cento ne fa. E le fa anche da poliglotta. L’idea di scuotere l’elettore al motto “in che lingua ve lo devo dire che dovete votarmi?” poteva essere una genialata. Ma quando gli stessi slogan passano dall’inglese al tedesco, dallo spagnolo all’arabo, c’è bisogno di “interpretazione” per non far sembrare il mondo una melassa indistinta. Insomma, se l’arabo vocalizza e il tedesco gargarizza, occorre tenerne conto. O lasciar perdere sia gli arabi che i tedeschi. Magari buttandola sul dialetto che è più famigliare.
Tra gli spottisti che in questi giorni vanno per la maggiore ci sono anche gli ubiqui. Generalmente sono consiglieri uscenti che ci riprovano. Li si sono visti su un cavalcavia o davanti ad un impianto sportivo mentre riepilogano con l’enfasi di un burocrate afono le meraviglie della legislatura appena archiviata e le sorti progressive (e progressiste) di quella che sperano possa continuare l’opera. Fortuna che gli spot durano un niente perché gli elenchi solitamente danno allergia. E quelli che vanno a scatti? Di un candidato che parla da dentro un’aula in cui è già stato protagonista non restano in testa le solenni promesse su ordine e disciplina. Ti si pianta nella memoria solo quel braccio che va su e giù in automatico forse per rafforzare i concetti.
Il soggetto va a braccio? Ma no, va a memoria anche lui. Ma il braccio mobile domina la scena di una fissità terribile. E domina pure le parole: che scompaiono. Che dire, ancora, dell’umorismo involontario del candidato che si prodiga a sponsorizzare la causa, anzi il credito, dei giovani. Nel suo spot, (impalato, of course), parla di spazi per i ragazzi e per gli studenti. Lo fa piantato davanti ad una telecamera con dietro un bar. Mentre parla il bar è pieno di ragazzi ai tavolini. Ce ne fosse uno che se lo fila. E ci fosse lui che, almeno con lo sguardo, si filasse i ragazzi.
Nel mondo di “spot che fai (?) c’è di tutto. Ma è un tutto – del tutto legittimo – che manca del tutto di pathos. Alle differenti normalità, quelle che probabilmente emergono negli incontri e nei confronti “dal vivo”, i candidati sostituiscono l’anormalità di pose improprie e forzate. Per sindaco e consiglio comunale di Trento si registra un’eruzione di liste e di aspiranti che certo uguali nella vita e in politica non sono. Ebbene, dentro “Spot che fai (?)” è un’impresa distinguerli perché un unico schema anonimo e sovrapponibile li accomuna purtroppo inesorabilmente. Occhio però, le differenze ci sono: eccome. Solo che è arduo riscontrarle in uno spot.
Potrebbero venire in aiuto, potrebbero dare aiuto ai colleghi, i non pochi attori veri che sono presenti in alcune liste. Se non lo fanno, se non fanno spot, una ragione ci sarà. Che sia la consapevolezza che anche pochi secondi di spot non si possono improvvisare? Che sappiano che una vecchia pubblicità di un lassativo va adeguata a quest’epoca di corse e disattenzioni? “Basta la parola…” diceva quella pubblicità. Beh, oggi la parola non basta. Che ce ne facciamo di un effluvio di parole senza personalità?