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Bisogna integrare l'economia dello sci

Per presentare L'AltraMontagna, il curatore del portale Pietro Lacasella ha intervistato i componenti del comitato scientifico. 

Qui di seguito l'intervista a Vanda Bonardo.

di
Vanda Bonardo
07 gennaio | 21:05

Per presentare L'AltraMontagna, il curatore del portale Pietro Lacasella ha intervistato i componenti del comitato scientifico. 

Qui di seguito l'intervista alla naturalista Vanda Bonardo.

 

Alpi e Appennini sono realtà bifronti: se da un lato sono il riflesso di un approccio economico aggressivo che, nel realizzarsi, tende a erodere inesorabilmente i territori e le loro peculiarità antropiche e ambientali, dall’altro si fanno laboratorio di esistenze alternative, che provano a svilupparsi grazie a un rapporto equilibrato con l’ambiente. Come si può dirottare l’attenzione della politica e dei grandi investitori su queste realtà virtuose?

 

In questi anni di lavoro e studio sulle realtà virtuose della montagna non vi ho scorto un gran che di attenzione da parte del mondo della politica. Neppure per le aree montane nel loro complesso, sebbene siano parte fondamentale delle aree interne, in altre parole di ben il 52% del terrritorio nazionale. Basti pensare alla misera fine che ha fatto la progettazione partecipata della Strategia Nazionale delle Aree Intere (SNAI). Ora ci sono le Green Community, esse possono diventare un nuovo importante soggetto di politiche ambientali e territoriali. Sono uno strumento interessante di presidio del territorio per quel che concerne un uso sostenibile delle risorse naturali, il pagamento dei servizi ecosistemici, nuove agricolture, start-up e turismo; ma non esaustive dei bisogni reali, ancorchè di una nuova dimensione di sviluppo locale dove collocare il protagonismo delle buone pratiche. Per quanto concerne i grandi investitori occorre fare una riflessione a parte, poiché di volta in volta va valutata l’effettiva coerenza dei progetti con le necessità di sostenibilità dei territori.

 Ma una questione di tale portata deve essere affrontata con un respiro più ampio. Per dare valore a questo mondo serve di più, c’è bisogno di una nuova visione di Paese, ad oggi inesistente e questo è un problema che attraversa tutti i partiti. Una visione del Paese, non solo attenta alla montagna e alle aree interne nel loro complesso, innanzitutto deve essere capace di futuro, poiché si deve avere un’idea di cosa si vuol fare del Paese tra vent’anni o trent’anni. Abbiamo bisogno di ragionare su un orizzonte culturale dove il contrasto alla crisi climatica sia il filo conduttore di tutte le geopolitiche. Dove la giustizia ambientale si fonda con la giustizia sociale. Dove le trasformazioni non siano considerate solo un costo ma anche un’opportunità. La risposta risiede in un’operazione culturale anche di contrasto a quelle forme di scetticismo, negazionismo e antiscientismo che ad esempio in queto periodo stanno tentando di affossare nel parlamento europeo una legge indispensabile come la Nature Restoration Law. Le stesse forze per cui l’unica libertà che oggi sembra avere ancora un senso è quella egoista del singolo, in contrasto con una qualunque idea di comunità e di bene comune.

Per tornare alla montagna delle best practices, questo mondo non può crescere e consolidarsi se è lasciato solo nel confronto con la politica e l’imprenditoria. In un contesto storico dove è palese la scarsa competenza di chi è chiamato a una governance delle politiche pubbliche e delle attività private si rende necessario un nuovo protagonismo dei corpi intermendi, in un percorso di ricollocazione che va oltre l’organizzazione settoriale novecentesca. Occorre ridefinire gli spazi di facilitazione per la costruzione di nuove sinergie, alleanze. Luoghi dove si possano costruire i modi di coinvolgimento degli investitori privati, soprattutto laddove incominciano a disegnarsi investimenti innovativi ma che per vari motivi non si sono ancora potuti coaugulare e tradurre in veri e propri impegni. Non dimenticando che una simbiosi tra privato e pubblico oggi è indispensabile a ridefinire un’idea di comunità, a scavalco della tradizionale rappresentazione di una realtà stretta tra statalismo e liberismo. Un contesto insomma dove il ruolo dei corpi intermedi se ben giocato potrebbe risultare fondamentale.

 

Il turismo, dagli anni Sessanta in avanti, è diventato l’economia trainante di molti territori montani. Quest’economia, in seguito ai nuovi scenari aperti dai cambiamenti climatici, ha un urgente bisogno di essere ripensata. A tuo parere, qual è la via da seguire per disegnare un’AltraMontagna sul fronte turistico?

 

Ci troviamo di fronte a una montagna che cambia a vista d’occhio, dove sarà sempre più difficile identificare la stagione invernale con lo sci alpino e per questo avrà bisogno di riconfigurarsi in un’idea di sostenibilità più ampia e capace di contenere in visioni complessive le possibilità di vivere nelle terre alte. Lo sviluppo futuro dovrà essere orientato a una maggior qualità ecologica, oltre che sulla ricostituzione e valorizzazione del capitale naturale, base indispensabile per il benessere e per una durevole crescita economica. È innegabile che il vuoto lasciato da una possibile implosione del mondo dei comprensori sciistici non si farà riempire facilmente. La scommessa sta nel riuscire a capire quanto si può ampliare l’offerta del turismo dolce all season sostenibile e quanto può sostituire quello tradizionale degli impianti.

Possiamo cambiare il nostro rapporto con la neve? Cambiare il nostro rapporto con la neve vuol dire beneficiarne quando arriva e non pretenderla a tutti i costi quando non c’è. E’ una questione di buon senso che però nell’era dello sci in pista richiede un cambio di paradigma non facile, pressochè improponibile per il mondo degli impiantisti. Tuttavia rimane un fine a cui tendere, ben sapendo che nel frattempo occorre capire come avviare la transizione. La direzione verso cui mirare è quella del turismo sportivo ecosostenibile per tutte le stagioni e della diversificazione delle attività. Una montagna che possa giocarsi anche la carta dell’attrattività climatica in un Mediterraneo sempre più caldo. Località, un tempo solo dedicate allo sci, possono diventare luoghi dove camminare tutto l’anno, respirare aria pulita, passare momenti di relax nel silenzio dei boschi, imbiancati o meno. Per questo sono importanti quei progetti di sviluppo locale dove lo sci alpino, pur rimanendo una pratica di rilievo, arrivi a confrontarsi realisticamente con i limiti della montagna: dalla fragilità intrinseca dell’ambiente al necessario limite da porre alla costruzione infinita di nuovi collegamenti e di piste (anche violando i ghiacciai). Non ultima la necessità di contenere i consumi energetici per contribuire alla mitigazione dell’effetto serra. Un turismo per tutte le età, con un forte grado di esperenzialità per facilitare il contatto con bellezza della nostra natura e con la ricchezza delle comunità locali e dei prodotti tipici. I progetti di diversificazione, se curati e sostenuti adeguatamente anche con aiuti economici e incentivi da parte dello Stato, potrebbero permettere di affrontare in un modo più indolore la transizione verso forme nuove e sostenibili di turismo montano, invernale e non. È fondamentale promuovere da tutti punti di vista - non ultimo quello economico - questo tipo di offerta affinché il nostro Paese si adegui velocemente alla domanda di nuovo turismo e ne faccia un fattore competitivo in grado di aggiornare le proposte di soggiorno e intercettare segmenti turistici nuovi e più consapevoli.

In sintesi si potrebbero prefigurare nuove potenzialità per lo sviluppo montano che, se colte con intelligenza e perspicacia dagli stakeholders locali e dalle istituzioni, possano trarre dal turismo dolce quegli elementi di forza per dare corpo alle speranze delle comunità montane che giustamente rivendicano per quel che riguarda il diritto al benessere e a posto di lavoro stabile e dignitoso. Un’idea di futuro utile a porre un freno allo spopolamento della montagna e a tutte le possibili angosce che ne conseguono. Attorno a queste ipotesi occorre individuare gli investimenti, ben sapendo che se non c’è un progetto complessivo con nuove basi culturali, i soldi da soli non sono sufficienti.

l'autore
Vanda Bonardo

Laureata in Scienze Naturali. È stata insegnante di materie scientifiche  e Consigliere Nazionale della Pubblica Istruzione. Responsabile nazionale Alpi di Legambiente, è stata presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta dal 1995, al 2011. Oggi è presidente di CIPRA Italia.

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