"Naturale, incontaminato... in realtà umanissimo". Le Strade Bianche senesi riflettono la percezione (spesso distorta) del paesaggio
Sabato 8 marzo nelle campagne senesi è andata in scena la "Strade Bianche", una classica del ciclismo divenuta un'icona grazie ai suoi settori sterrati e al paesaggio iconico che attraversa. Una parte della nostra redazione era in Toscana in bicicletta a tifare per i partecipanti delle due gare in programma, quella femminile e quella maschile. Pedalando assieme è nata una riflessione sulla percezione di questi luoghi


Siamo esausti e felici, coricati sull’erba, con quasi cento chilometri di pedalata nelle gambe. Con un occhio osserviamo l’orizzonte morbido delle Crete senesi, mentre con l’altro non molliamo per un secondo lo schermo dello smartphone. Rai Sport ci mostra in primo piano volti ansimanti e grigiastri, segnati dalla fatica, mentre tra le onde di argilla di questo mare di colline si scorge una striscia di polvere che si alza e si allunga, tagliando in due il paesaggio.
Siamo a Monte Sante Marie, comune di Asciano, provincia di Siena. E siamo qui per vedere la “Strade Bianche”, ma soprattutto per pedalare le strade bianche.
Questa gara ciclistica, conosciuta come la “Classica del nord più a sud d’Europa”, è nota non tanto per essere una delle prime della stagione e non solo per le sue difficoltà tecniche, concentrate in durissimi settori non asfaltati. Soprattutto, è il paesaggio attraversato dalla corsa ad ammaliare milioni di appassionati. Partenza alla Fortezza medicea di Siena e arrivo nella magnificenza di Piazza del Campo. Nel mezzo, una linea di oltre duecento chilometri che si attorciglia in uno dei luoghi più iconici d’Italia, che ha contribuito a rendere la Toscana una meta turistica apprezzata in tutto il mondo.
Mentre la striscia di polvere si avvicina e due elicotteri - decisamente troppi - volano radenti facendo oscillare roverelle, lecci e cipressi, la nostra concentrazione è sempre più rivolta al territorio e sempre meno allo schermo. Ma l’audio della diretta ci continua ad accompagnare, con la voce dei telecronisti che, per spezzare la monotonia delle disamine tecniche, parlano ora proprio del paesaggio attraversato dalla corsa. E come ogni anno, immancabili, ecco arrivare le “formule magiche” che si ripetono di edizione in edizione.
Si racconta di “bellezze naturali”, di “natura toscana”, di “paesaggio naturale”. Anni fa, qualcuno si era lasciato addirittura sfuggire il Jolly, parlando di “paesaggio incontaminato”.

Ci guardiamo e sorridiamo, un po’ amaramente.
È dall’inizio della pedalata, infatti, che ragioniamo esattamente di questo: della percezione distorta che in molti hanno del paesaggio, spesso associato alla parola “natura”. Ciò avviene soprattutto laddove il territorio è così gradevole, proprio come qui, dove lo sguardo può spaziare per chilometri perdendosi in un mosaico fatto di boschi, campi, uliveti, vigneti, paesi. Scorci, questi, in realtà tutt’altro che naturali, per nulla selvaggi o incontaminati, ma: “Indissolubilmente legati alle pratiche tradizionali mantenute e trasmesse nei secoli da generazioni di produttori: agricoltori, pastori, boscaioli”, come scrive Mauro Agnoletti nell'introduzione del suo libro dedicato ai Paesaggi Rurali Storici d’Italia.
Proprio a Siena, nel Palazzo Pubblico, è conservato un famoso ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, datato 1338-1339 e chiamato “Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo”. Nell'affresco “Effetti del Buon Governo in campagna” si evidenza chiaramente la centralità del lavoro umano nella creazione del paesaggio armonico che ancora oggi caratterizza questo territorio, quello che abbiamo visto scorrere in sella alle nostre biciclette e che lascia a bocca aperta milioni di spettatori davanti alla TV, invitandoli a visitarlo.

Tutta questa bellezza non è affatto solo “natura”, almeno per come questo termine è oggi concepito dai più, legato cioè all'assenza dell'umano. Al contrario è anche, forse soprattutto, storia di uomini e donne, storia di lavoro e fatica, di bisogni primari, di tecniche agronomiche, di macchinari, di mappe catastali, di scelte di buon governo del territorio. Una storia di cui troppo poco spesso si parla, perché certi discorsi complessi, poco seducenti, rischierebbero rompere la poesia. Immaginatevi un giornalista Rai esclamare a gran voce: “Ecco il risultato del disboscamento delle antiche, immense foreste toscane distrutte per sempre!”. Verrebbe rimosso all’istante dalle telecronache sportive.
E invece, paradossalmente, la poesia è proprio tutta qui. Non certo nell'esaltazione del disboscamento, che qui anticamente c'è stato eccome per creare spazi agricoli, ma nella ricerca dinamica e continua di un equilibrio tra la natura, i benefici che traiamo da essa, la scienza, l’intelligenza e il buon senso. E nella consapevolezza che anche la nostra specie, seppur potenzialmente distruttiva, è parte della natura e grazie ad essa esiste.
“La Val d’Orcia è un eccezionale esempio del ridisegno del paesaggio nel Rinascimento, che illustra gli ideali di buon governo nei secoli XIV e XV della città-stato italiana e la ricerca estetica che ne ha guidato la concezione”, si legge nel sito web della Commissione Nazionale italiana dell’Unesco, di cui buona parte del territorio che abbiamo di fronte agli occhi fa parte. “Connubio di arte e paesaggio, spazio geografico ed ecosistema, è l’espressione di meravigliose caratteristiche naturali ma è anche il risultato e la testimonianza della gente che vi abita. Tra il paesaggio duro, accidentato delle crete e quello più morbido delle colline dove la macchia mediterranea, i vigneti, gli uliveti, le coltivazioni promiscue si scambiano e si intersecano in affreschi di rara bellezza, si comprende con chiarezza come e quanto abbia pesato la consapevolezza dell’uomo di dipendere, nelle sue opere, dalle risorse dell’ambiente circostante e dal loro utilizzo in modo non distruttivo”.
Ci piacerebbe, un giorno, sentir leggere queste parole durante la telecronaca delle Strade Bianche. Sentir qualcuno ragionare di “paesaggi culturali”, creati dalla nostra specie nei secoli modellando, ammaestrando, respingendo e accogliendo la “natura”. Sentir qualcuno dire, finalmente, che tutto questo non esisterebbe senza agricoltura, senza gestione forestale, senza gente che vive di campi e di bosco, senza abitanti nei paesi. Sentir qualcuno affermare che non è affatto “incontaminato” il ben di Dio che abbiamo di fronte, e non è neppure un “museo”. È vita: umanità, fatica, passione, preghiere, bestemmie, impegno e ingegno. E regole, certamente, per mantenere la bilancia del buon governo - che oggi chiamiamo sostenibilità - in un delicato equilibrio.

Tutti urlano come pazzi, rombano macchine e moto, le pale degli elicotteri affettano il timido cielo di marzo.
In un baleno, nel mezzo di un gran polverone, passa la testa della corsa. Nella nuvola biancastra spiccano i colori dell’iride stampati sulla maglia del Campione del mondo, che presto cadrà, si rialzerà e arriverà in Piazza del Campo con le braccia (sbucciate e sanguinolente) al cielo.
Che corsa straordinaria, penseranno in tanti. Non solo per lo show di Pogačar, non solo per il brivido dei settori sterrati. Soprattutto per quel paesaggio… “naturale”, “incontaminato”, umanissimo.

Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.