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Cultura

"Se non fossi nato quella notte, la mia famiglia si sarebbe estinta". Sulle orme di Anselm Kiefer: "Le rovine per me sono state l’inizio e non la fine"

L'artista, nato l’8 marzo 1945, oggi compie ottant'anni. Un'occasione per ripercorrere alcuni frammenti della sua biografia e del suo pensiero

di
Silvio Lacasella
08 marzo | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

L’arte, espressione di uno stato d’animo indefinibile, contiene in sé la provvisorietà della percezione visiva. Questo ci dice con le sue opere e in ogni sua intervista Anselm Kiefer, ottant’anni oggi, essendo egli nato l’8 marzo 1945. Ogni immagine ha un valore emotivo transitante, non solo perché essa, singolarmente, rappresenta la frammentarietà di un pensiero assai più complesso, ma perché contiene al suo interno una serie di elementi autodistruttivi, destinati a modificarne la sostanza interiore. Il senso di sconfitta che ogni artista prova, sembra dirci Kiefer, fortifica il percorso: il non-finito, conseguentemente, si trasforma in opera. Ecco che, passando per Michelangelo, per Rodin e per tanti altri, egli fornisce un valore alto, filosofico e vitale alla rappresentazione.

Quando dice, ad esempio: “Il titolo spesso non è la spiegazione dell’immagine, piuttosto è un’allusione”, indica la vastità dello spazio del “non rappresentabile”. L’unica via percorribile dall’artista è quella che la ragione indica nel momento in cui l’opera si genera e prende forma. Non a caso, accompagnando una mostra del febbraio 2023 alla Galleria Lia Rumma di Napoli e dedicata a Segantini, scrive: “L’arte è come il percorso sulla cima di una montagna si può cadere da una parte o dall’altra”. Ciò che è stato, deve ancora arrivare.

Non seguire il flusso magmatico e romantico che Kiefer esprime attraverso la sua arte, significa escludere la sostanza culturale delle sue origini e della sua ricerca espressiva. La provvisorietà come valore assoluto: “La notte in cui sono nato in ospedale a Donaueschingen, è la stessa in cui la nostra casa è stata bombardata. Se non fossi nato quella notte, la mia famiglia si sarebbe estinta. Ci siamo spostati in una seconda casa, ma quella bruciata è stato il mio primo campo di giochi, tornavo sempre lì: il più meraviglioso play mobil che un bambino potesse avere. Ai miei occhi le rovine erano fantastiche e piene di potenzialità. Rappresentavano la realtà. Per me sono state l’inizio e non la fine”.

Dai detriti, nasce l’opera. Un’opera sempre in movimento, terminata eppure in attesa di essere rielaborata, trasformata, erosa, franante, stratificata, spenta dalle luci accecanti del giorno, illuminata nella notte di Novalis. Opere che, non di rado, egli successivamente decide di distruggere. Come quando, citando Andrea Emo, riporta sulle pareti della sua mostra a Palazzo Ducale a Venezia, nel 2022, la frase: “Questi scritti quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce”. Letteratura, molta poesia, Paul Celan sopra ogni altro. Moltissima filosofia: da Heidegger a Barthes. Gli amati Tintoretto e Van Gogh. Scienza, alchimia, storia, attualità: teologo e, al contempo, spregiudicato iconoclasta, tutto entra e tutto esce nel suo mondo, lasciando tracce e frammenti. Stratificando le riflessioni e i giudizi, appunto.

Se da un lato, coerentemente, al temine della mostra veneziana dichiara: “Non sono mai soddisfatto. Ho dipinto decine e decine di tele. Ma ogni volta vorrei cambiare tutto. Buttare le opere nella laguna sarebbe meraviglioso”, quando, subito dopo, gli viene chiesto a cosa serve l’arte, senza esitazione risponde: “L’arte e la poesia sono le sole cose vere. Il resto è illusione”.  Auguri.

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