“La tradizione è un’immagine forte, per cui qualsiasi cosa in grado di modificarla a prescindere dà fastidio”. Rifugi montani: tra nuove esigenze e nuove forme
Per provare a camminare in equilibrio tra il passato e il futuro dei rifugi ci siamo confrontati con Luca Gibello, direttore de Il Giornale dell’Architettura e membro del comitato scientifico de L’AltraMontagna: Gibello sarà uno degli ospiti del festival (18-20 ottobre) che il nostro quotidiano ha organizzato a Trento, assieme alla casa editrice People, nell'ambito di Autumnus
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
“La tradizione è un’immagine forte, per cui qualsiasi cosa in grado di modificarla a prescindere dà fastidio”.
Non è raro sorprendersi aggrappati a simboli che, nell’immaginario collettivo (ma anche individuale), tendono a ripetersi inalterati sia nell’estetica che nelle forme. Uno di questi è senza dubbio il rifugio di montagna. Di conseguenza non è per tutti semplice accettare senza coinvolgimenti emotivi i progetti architettonici che prevedono trasformazioni esterne rispetto ai confini del nostro immaginario.
Eppure, come diceva Gustav Mahler, “la tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere”. Se è vero infatti che rivolgersi al passato può aiutarci a immaginare il futuro, replicarlo in modo ostinatamente inalterato rischia di proiettarci nella sfera dell’anacronismo.
Come scrive l’antropologo Annibale Salsa in I Paesaggi delle Alpi, è infatti importante “creare l’avvenire facendo tesoro di quanto è già avvenuto”.
Per provare a camminare in equilibrio tra il passato e il futuro dei rifugi ci siamo confrontati con Luca Gibello, direttore de Il Giornale dell’Architettura e membro del comitato scientifico de L’AltraMontagna. Gibello sarà uno degli ospiti del Festival (qui il programma) che il nostro quotidiano ha organizzato a Trento, assieme alla casa editrice People, nell'ambito di Autumnus.
Perché qualcuno sente l’esigenza di innovare il linguaggio architettonico?
Innovare è una dinamica connaturata nell’ordine delle cose, della vita umana. Diversamente credo che saremmo ancora tutti nelle caverne, in qualsiasi ambito: le automobili ad esempio non sono quelle di cent’anni fa, perché si evolve la tecnologia, la ricerca sulle forme. C’è chi, riferendosi ai nuovi progetti, sostiene in modo indifferenziato che appartengono alla contemporaneità, ma non alla storia. Tuttavia la storia è sempre contemporanea. Anche in epoche passate la grande architettura ha sempre suscitato scandalo, e non solo in montagna: quando Brunelleschi ha realizzato la cupola di Santa Maria del Fiore, sicuramente un sacco di fiorentini avranno storto il naso. Ma è normale così. È come nella letteratura, è come nella storia dell’arte. Sennò continueremmo a dipingere come le pitture rupestri nelle caverne.
Il problema dei nuovi progetti forse può essere dato dalle dimensioni, dalla richiesta della committenza di avere strutture sempre più grandi e, di conseguenza, inevitabilmente sempre più impattanti.
L’ampliamento delle dimensioni probabilmente riflette un’esigenza sociale se consideriamo il fatto che sta aumentando il numero degli appassionati di montagna.
Esatto. Interroghiamoci su questo: sul bisogno di avere più visibilità, di essere più appetibili: più, più, più, sempre tutto di più.
Quand’è che una trasformazione in chiave moderna può essere considerata lecita e quand’è invece che si rischia di inciampare nel pacchiano o, ancora peggio, di lasciare nel paesaggio cicatrici permanenti?
Quando si fa il falso storico siamo sempre nel pacchiano: col falso storico non si fa la storia. Sul discorso delle dimensioni forse bisognerebbe cominciare a rimpicciolirsi, a volte a dire dei no. Dire dei no significa non costruire, significa ridurre l’accesso in certi posti. È chiaro che se facciamo strutture sempre più accoglienti e sempre più grandi aumenta il numero dei fruitori ...
... magari in territori fragili.
Un ultima domanda: tra l’esigenza di innovare ad ogni costo, magari per lasciare una firma chiara sul paesaggio, e la radicalizzazione in luoghi comuni dettati da una presunta tradizione, esiste una terza via?
Esiste una possibilità di lavorare con molta attenzione al contesto; esiste la necessità di evitare segni eclatanti. I progettisti devono essere umili, devono porsi nel solco di una lunga tradizione, ma ricordiamoci sempre che “la tradizione” come dice Annibale Salsa “è innovazione riuscita”. Oggi l’architettura che ereditiamo dal passato è tradizionale, ma all’epoca fu innovativa: il fatto è che è diventata parte del senso comune perché si è stratificata nel tempo. Delle piccole innovazioni ci stanno, dentro un solco. Non vogliamo invece progetti che invece siano il colpo di testa o il landmark che deve farsi vedere per forza.
Copertina: a sinistra il rifugio Velo della Madonna (immagine del sito), a destra il Monte Rosa Hütte