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Cultura

Qual è la maggiore libertà che ci possono offrire le montagne? Un vecchio scritto in ricordo di Primo Levi

L'editoriale / L’atto di salire in montagna non si può ridurre a un semplice esercizio fisico, e neppure al desiderio di raggiungere una meta tangibile (una vetta, un bosco, un rifugio, …). Spesso infatti si sale alla ricerca di sensazioni immateriali; spinti dalla necessità di respirare determinate emozioni, di lasciarsi trasportare da stati d’animo inconsueti e, a volte, addirittura inediti

di
Pietro Lacasella
16 dicembre | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

"Ma io questo posto l'ho già visto!"

 

Un vialone lungo, lunghissimo, e decisamente ampio, incorniciato da eleganti palazzi. Lo osservavo con attenzione, con la mano appoggiata al portone in legno dell'appartamento che avevamo preso in affitto.

 

"Sì, ne sono certo, io questo posto l'ho già visto". 

 

Poi, tra la nebbia dei ricordi, è apparso un bagliore. Allontanandomi dal portone ho attraversato la strada e, scandagliando i nomi sui campanelli, ho trovato la conferma

 

Senza farlo apposta, per trascorrere un fine settimana a Torino, avevamo prenotato giusto di fronte a casa di Primo Levi. L'avevo visitata qualche anno prima, in una sorta di pellegrinaggio laico finalizzato alla realizzazione di un lavoro mai pubblicato.


La coincidenza mi ha catapultato nelle memorie di quel periodo e così ho deciso di recuperare un vecchio scritto su Levi, le montagne e la libertà, un concetto alto, quasi impalpabile e, proprio per questo, prezioso.

 

Lo ripropongo: 

 

L’atto di salire in montagna non si può ridurre a un semplice esercizio fisico, e neppure al desiderio di raggiungere una meta tangibile (una vetta, un bosco, un rifugio, …). Spesso infatti si sale alla ricerca di sensazioni immateriali; spinti dalla necessità di respirare determinate emozioni, di lasciarsi trasportare da stati d’animo inconsueti e, a volte, addirittura inediti.

 

Non è quindi un caso che per molti la montagna rappresenti un baluardo di libertà; concetto ampio e complesso che, tuttavia, emerge abitualmente dalla narrazione delle esperienze alpine.

 

Quando mi capita di incontrare questa associazione (montagne-libertà) penso a Primo Levi. Il suo amore per la montagna e per l’alpinismo emerge timidamente dalla sua biografia: altri e più drammatici episodi l’hanno infatti segnata in maniera indelebile. Ma era una passione sincera e in un certo senso salvifica. Negli anni dell’università Levi saliva in montagna principalmente con due amici, nonché compagni di studi: Sandro Delmastro e Alberto Salmoni.


La loro attività alpinistica si intensificò in modo particolare dopo il 14 luglio 1938, anno in cui fu pubblicato lo spregevole “manifesto della razza”. Levi, com’è a tutti noto, aveva origini ebraiche. Anche Salmoni era ebreo, mentre Delmastro aveva ereditato dalla famiglia una cultura antifascista.

 

I tre salivano in montagna per allontanarsi da una società in cui non riuscivano a rispecchiarsi. Andavano ad arrampicare d’estate o con gli sci e le pelli d’inverno per prendere le distanze da un’atmosfera pregna di intolleranza; da un mondo in cui non si sentivano accettati. Lassù, tra le vette, tornavano a respirare e, come scrisse più avanti Levi, avevano ancora il privilegio di essere “padroni del proprio destino”.

 

Tuttavia non raggiungevano i rilievi solo per fuggire temporaneamente dalla realtà di tutti i giorni, ma anche per guardarla dall’alto, con occhio meno coinvolto e di conseguenza più lucido e nitido. Ecco, questa è forse la maggiore libertà che ci possono offrire le montagne: acquisire una prospettiva aerea capace di guidarci tra gli impervi sentieri della vita con maggior consapevolezza.

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