Per ottenere un chilo di miele servono almeno 4 milioni di "visite floreali". Siccità e pioggia mettono in difficoltà i mielicoltori: le api sono testimoni degli effetti della crisi climatica
In una giornata di sole ogni ape si posa mediamente su oltre 6 mila fiori. Attivismo meticoloso e altrettanto impegnativo, basti pensare che per ottenere un chilo di miele servono almeno 4 milioni di "visite floreali". "Già, perché le api sono ‘insieme’ e non individui", una frase da un racconto di Mario Rigoni Stern, lo scrittore che è riuscito a sintetizzare il fascino di un bosco animato da api
Danzanti, instancabili, affascinanti nella loro ritmica gestualità. Api, al femminile, incomparabili sentinelle della biodiversità, protagoniste fondamentali per la conservazione dell’habitat. Preziose testimoni del cambiamento climatico e continuamente minacciate da scriteriate operazioni di agrochimica invasiva. Subito un responso: l’estate è appena iniziata e la speranza dei mielicoltori è di riuscire a invertire la tendenza registrata nei primi mesi del 2024. L’anno più critico per quanto concerne la produzione del miele.
Quantitativi per certi versi irrisori nelle arnie sistemate tra boschi e ambiti consueti - vicino alle acacie, pure tra i meleti dolomitici, stessa cosa negli agrumeti del sud - e pure tra aree disagiate dell’alta collina. In questi giorni è ripreso il ronzio assordante, si spera nel miele estivo, specialmente in quelli dell’alta montagna, rododendro su tutti.
Siccità nel finale dell’inverno - che prosegue drammaticamente tuttora al sud - seguita da piogge torrenziali che hanno danneggiato la fioritura di molte varietà vegetali. Stravolgendo i ritmi delle api, costrette a girovagare per raccogliere nettare anzitutto per il loro fondamentale nutrimento. Altro che miele.
Fiori senza nettare, e api costrette a ‘bottinare’ praticamente a vuoto. Lo ribadiscono i custodi più autorevoli del miele. Tra le Dolomiti operano diverse migliaia di mielicoltori; moltissimi (quasi tutti) curano le arnie solo per passione, per valorizzare una consuetudine ancestrale, dedizione e assoluto rispetto.
Un centinaio i cosiddetti ‘professionisti’, con aziende spesso poco valorizzate. In compenso possono vantare un singolare primato: i loro alveari - in Italia se ne contano quasi 1 milione a mezzo - hanno per sfondo panorami mozzafiato e valorizzano anche visivamente il l’areale montano. Tutti comunque impegnati a rispettare il ruolo delle api, perché sono loro che fanno il miele. All’apicoltore resta semplicemente il compito di ‘recuperare’ il nettare, confezionarlo per la gioia dei nostri sensi.
Miele, ora poco ma buono? Praticamente senza storia quantitativa quello dai fiori di acacia. E nelle arnie si presenta con l’insolito scuro colore, assolutamente extra tipologia.
Lo ribadiscono con determinazione Francesca e Elena Paternoster, le giovanissime titolari di Mieli Thun, la rinomata azienda fondata da loro padre, Andrea, visionario apicoltore della Val di Non, personaggio istrionico che ha rivoluzionato il settore del miele italiano, drammaticamente stroncato da un incidente stradale. "Le nostre api gironzolavano suoi fiori, attirate dalla splendida fioritura, ma tra i petali non trovavano nettare, causa bizze meteo, freddo e sbilanciamento idrico, umidità e altrettanta repentina calura".
Situazione decisamente complicata per gli operatori del sud. Piantagioni a secco, fioriture stentate. Così le api non bottinano e quindi non producono miele, danneggiando la covata e dunque mettendo a rischio la sopravvivenza delle "operaie" dell’arnia.
Api affamate, al punto da costringere gli apicoltori a sfamarle, depositando tra le arnie zolle di zucchero con sciroppi dolciastri per farle sopravvivere. Un modo per salvare questi indispensabili insetti, utili all’agricoltura e altrettanto speciali per sostenere la variabilità biologica, i ritmi della natura.
Non solo. Le api sono costantemente minacciate pure da continui trattamenti chimici irrorati - se ne contano già una ventina - sulle colture frutticole danneggiate da piogge simili a bufere. Trattamenti talvolta eseguiti a notte fonda, quasi di nascosto, con agricoltori che mirano solo al loro tornaconto. Senza alcun rispetto del ruolo delle api, fondamentale per il raccolto autunnale della frutta, mele in particolare.
Situazioni estreme, comunque sintomatiche. Uno stravolgimento ambientale che danneggia non solo le api, ma il ruolo stesso dei contadini. Colture della pianura improntate alla monocoltura intensiva, nessuna cura alla biodiversità e dunque impedendo agli insetti impollinatori di mantenere giusti equilibri dell’habitat. Fortunatamente, ancora una volta, il ruolo della montagna è prezioso. Come i mieli alpini, che si confermano tra i più ricercati.
Dal raro (rarissimo, stando l’andamento delle ultime estati) miele di rododendro, il più "quotato" proprio perché davvero miele d’alta montagna; altrettanto gustoso e caratteristico la "melata d’abete", poi il castagno, e i più "normali" dai boccioli gialli del tarassaco e quello dai pollini dei fiori del melo. Senza tralasciare una sequenza di mieli variegati, in tutto e per ogni gusto. Esempio. Acacia, cardo, corbezzolo, edera, erba medica, girasole, lavanda, marruca, tiglio, timo e pure miele dall’albero del paradiso. E ancora – non perché banale – il classico millefiori.
Mieli diversi con indelebili caratteristiche date dall’operosità delle api. Instancabili. Solo una considerazione: in una giornata di sole ogni ape si posa mediamente su oltre 6 mila fiori. Attivismo meticoloso e altrettanto impegnativo, basti pensare che per ottenere un chilo di miele servono almeno 4 milioni di "visite floreali".
"Già, perché le api sono ‘insieme’ e non individui". Una frase da un racconto di Mario Rigoni Stern, lo scrittore che forse meglio di tanti è riuscito a sintetizzare il fascino di un bosco animato da api. "Dalla terra veniamo, alla terra torniamo, e in mezzo c’è un giardino. Animato dalle api".
Aforisma più volte ribadito dal compianto Andrea Paternoster e da tanti cultori del miele, per diffondere i saperi legati all’alveare, per capire il gusto del miele, sfumature ed essenze decisamente affascinanti. Per condividere quell’insieme d’api. Degustando mieli come fossero altrettante tipologie di vino, mescolarli, plasmarli in ampi bicchieri, per carpirne la sinuosità degli aromi.
Per continuare a poter contare sul valore del miele. Su i suoi colori cangianti in tonalità, ricchi di sfumature e riflessi, per questo difficili da definire e codificare in una scala.
Tra curiosità e note organolettiche, spunti e utilizzi in cucina. Miele per elevare la piacevolezza di un sugo di pomodoro destinato alla quotidiana razione di pasta, ad esempio. O per caramellare certi arrosti, da mixare con crostacei, da usare con verdure.
Ecco allora l’uso del miele che non t’aspetti: mettere un cucchiaino di miele nell’acqua del paiolo che bolle, per dare il via alla cottura della tradizionale polenta di mais. Accorgimento lezioso, nota golosa. Che tipologia? A piacere, ma è sicuramente una leccornia se per la polenta casalinga si usa miele di sulla o – ancora più stimolante (a livello sensoriale) – miele di rododendro d’alta quota. Anche nella polenta si può intravvedere il fascino della verticalità. Aromatica.
Nato a Stravino, micro-borgo rurale in Valle dei Laghi, tra Trento, le Dolomiti di Brenta e il Garda. Per 36 anni inviato speciale Rai in programmi e rubriche agroalimentari, filmmaker, da oltre 30 anni degusta vini per la guida del Gambero Rosso e ha pubblicato numerosi testi di cultura enogastronomica. È editorialista e colonna del quotidiano online ilDolomiti.it e per l'AltraMontagna racconterà di enogastronomia 'eroica', di Terre Alte ed alte quote, di buon vino e buon mangiare.