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Cultura

L'esigenza umana di lasciare traccia

Per presentare L'AltraMontagna, il curatore del portale Pietro Lacasella ha intervistato i componenti del comitato scientifico. 

Qui di seguito l'intervista a Irene Borgna.

di
Irene Borgna
07 gennaio | 21:05

Per presentare L'AltraMontagna, il curatore del portale Pietro Lacasella ha intervistato i componenti del comitato scientifico. 

Qui di seguito l'intervista all'antropologa Irene Borgna.

 

Lasciare una traccia, un segno permanente del nostro passaggio, è un’attitudine profondamente umana. E così anche i territori montani si fanno scrigno di una pluralità di simboli che vanno da quelli di estrazione religiosa (croci di vetta, bandierine tibetane, …), a quelli di carattere turistico (panchinoni, ponti tibetani, voli d’angelo, … Sì, perché anche una panchina gigante esprime il desiderio di un’amministrazione di firmare il territorio, di realizzare una struttura che possa rimanere presente anche alla fine del proprio mandato).
La montagna contemporanea si fa tuttavia riflesso di una moltitudine di sensibilità. Questa pluralità non potrebbe essere soddisfatta da un’assenza di simboli; dalla rinuncia a installarne di nuovi per consentire a tutte e a tutti una libera interpretazione del territorio?

 

Sì, sì, sì e ancora una volta sì. È ora di fermarci all’esistente e di smettere di trattare la montagna come se fosse il nostro giardino privato, dove disporre nani di gesso, putti e colonne corinzie a nostro discutibile talento. L’attuale escalation di “tracce permanenti” individuali, collettive o istituzionali inflitte al paesaggio montano è un disastro. È un diritto delle attuali e future generazioni (visto che la crisi ambientale gliene negherà ben altri, purtroppo) quello di poter godere di scorci di paesaggio dove i segni umani sono, se non assenti, almeno funzionali, discreti e integrati nel paesaggio come una mulattiera o un muro a secco. Una panchina (di ogni dimensione), una targa commemorativa, un oggetto artistico (anche biodegradabile) in un contesto naturale somigliano piuttosto a invadenti insegne lampeggianti, fastidiose e patetiche nel rivendicare l’attenzione quando lo sguardo ha solo sete di spazio libero, chiede di poter posarsi su altro che non sia un manufatto umano, troppo umano. Sulle vette si lasciano un pensiero e un piccolo segno d’inchiostro sul libro di vetta: un rito che ci ricorda che non siamo i primi a passare e che dopo di noi verranno altri simili, altri fratelli che devono poter godere di carta bianca per lo spirito e per la fantasia.

 

L’antropologia invita a uno slancio di empatia. Per costruire una narrazione più vicina alle necessità di chi abita i territori montani, e non solo a quelle dei turisti; per raccontare un’AltraMontagna, secondo te quanto è importante guardare Alpi e Appennini anche con gli occhi di chi vi risiede?

 

Questa è difficile. È difficile perché abitando in montagna e studiandola un pochetto, mi sono resa conto che ormai non c’è grande differenza nello sguardo dei discendenti della generazione dei “vinti” di Nuto Revelli rispetto allo sguardo di chi vive in città. Stessa logica di sfruttamento, dove valorizzare il territorio vuol dire farlo rendere: in fondo lo scempio di quelle valli (come quella in cui vivo) inondate dal cemento delle seconde case è stato possibile perché i montanari hanno fatto a gara a vendersi campi e pascoli. La montagna è asservita ai turisti perché i locali vogliono che questi accorrano numerosi a riempire le casse del settore, anche se la capacità di carico del territorio è superata, persino se i turisti hanno richieste che stravolgono lo spirito dei luoghi e il loro paesaggio. Però c’è un però grande come una montagna. Esistono sguardi differenti sulle terre alte. Chi svolge mestieri legati alla terra – all’agricoltura, all’allevamento, alla selvicoltura - ha uno sguardo altro, i forestieri che hanno scelto la montagna spesso portano uno sguardo originale, i montanari che sono andati a studiare o a lavorare altrove e poi hanno deciso di tornare rivelano prospettive e visioni interessanti. È soprattutto a questi interlocutori che merita tendere l’orecchio per individuare alternative rispetto alla religione monoturistica, che vede nel turismo al chilo l’unica prospettiva dei luoghi montani.

l'autore
Irene Borgna

Si occupa di divulgazione e comunicazione in campo ambientale presso le Aree protette delle Alpi Marittime. Guida naturalistica e responsabile dell'educazione ambientale per le Aree Protette delle Alpi Marittime. Il suo "Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte" (Ponte alle Grazie 2021) ha vinto il premio Mario Rigoni Stern ed è stato segnalato fra i libri di viaggio e d’esplorazione dal premio Giuseppe Mazzotti.

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