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Cultura

Le montagne di Giovanna Zangrandi tra precisione topografica e espressionismo visionario

La rappresentazione visiva della montagna di Giovanna Zangrandi tramite le opere di Ernst Ludwig Kirchner e Marianne von Werefkin.

di
Anna Lina Molteni
06 marzo | 19:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Se mi chiedessero di rappresentare visivamente, e non con le parole, la montagna di Giovanna Zangrandi, in prima battuta il pensiero andrebbe alle mappe topografiche che redasse su incarico di Sandro Garbin, primo comandante della brigata partigiana Pier Fortunato Calvi, o ai disegni di un ponte che attraversa una gola oppure del landro, la roccia strabordante sotto la quale trovò rifugiò nell’inverno del ’44, trascorso per la maggior parte all’addiaccio. Altitudini, vie d’accesso e di fuga, sentieri e mulattiere, rifugi e ripari naturali per facilitare gli spostamenti a partigiani che non conoscevano la val d’Oten, l’Antelao, le Marmarole, ma anche altezze, spessori e composizioni dei materiali per valutare le cariche esplosive necessarie a farli saltare. Tutto preciso e documentato, eppure la montagna di Giovanna non è stata solo questo. Non si esaurisce nel tempo dei diciotto mesi della Resistenza, sebbene questi abbiano costituito lo spartiacque della sua vita, per il quale ci fu un “prima” e un “dopo”, evidente anche nel cambio definitivo del nome. Passando attraverso quello di battaglia “Anna”, Alma Bevilacqua divenne infatti Giovanna Zangrandi. E nemmeno si limita alle numerose ascensioni sulle Dolomiti, iniziate da adolescente, all’epoca delle vacanze cadorine con la madre e proseguite finché la salute gliele permise.

 

La fascinazione per la montagna fu infatti una delle cause che nel ’37 la fecero trasferire da Bologna a Cortina d’Ampezzo. Una fuga dall’indistinta opacità degli orizzonti nelle nebbie padane, ma non una scelta “paesaggistica”, bensì una Lebensreform, nella quale la montagna diventava il luogo dove, sperava, la sua anima tormentata si sarebbe acquietata. Non sarà così, purtroppo. I fantasmi dell’infanzia e di un’adolescenza difficile non le daranno tregua e l’immagine della montagna come proiezione di un mondo interiore in perenne fermento prevarrà nei suoi libri sulla montagna dei rilievi e della precisione topografica e su quella della pratica alpinistica, e oggi, nell’immaginario del lettore cime e valloni assumono l’aspetto deformato, i colori saturi e sgargianti degli espressionisti. Sono due in particolare i nomi che vengono in mente: Ernst Ludwig Kirchner e Marianne von Werefkin.

 

In piena Grande Guerra, nel 1917 Kirchner si trasferì a Davos, nei Grigioni, dove rimase fino alla morte. Anche lui come la Zangrandi cercava nel silenzio sonnolento delle vallate chiuse tra il Piz Linard e la Weissfluh il balsamo all’anima stanca, lontano da una patria che considerava le sue opere arte degenerata e come tale da distruggere. Nei vent’anni del suo esilio volontario, dipinse una montagna nella quale i particolari si annullavano in stesure di colori senza sfumature, che ricordano le pitture su vetro. Non c’è profondità e prospettiva, basta il colore a svelare l’essenza delle cose rappresentate.


Ernst Ludwig Kirchner - Die Berge Weissfluh und Schafgrind

Nella Werefkin le montagne non sono le vette dei tremila di Davos, ma le cime più modeste delle Prealpi ticinesi, che si deformano, “lievitate” dall’interno, come un’angoscia che gonfi un petto in un respiro affannoso. Un paesaggio che Marianne piega alle sue sensazioni osservandolo prima e dipingendolo poi, ma restituendolo alterato, in una sorta di “panismo opposto”, in virtù del quale non è la pittrice che si immerge nel paesaggio divenendone parte, ma l’esatto contrario. Con colori decisi, senza chiaroscuri, esattamente come la prosa della Zangrandi, che a tratti è esaltata, frammentata in un ingorgo di sensazioni e sentimenti che si sovrappongono frenetici e si realizzano in frasi brevi, staccate, prive della “prospettiva” del periodo lungo e delle sequenze dei tempi verbali che la allontanano a ritroso nel passato o al contrario la proiettano nel futuro. L’urgenza di esprimere emozioni e pensieri distrugge la sintassi. Una prosa in corsa, che dà la sensazione di un eterno presente. In particolare, c’è un dipinto della Werefkin che ricorda l’esplosione di colore del campo di papaveri che dà il nome al diario-racconto della costruzione del rifugio Antelao, Il campo rosso. A fare da sfondo due pareti triangolari grigie che inquadrano una montagna a forma di pan di zucchero, con una spruzzata di bianco al culmine che assomiglia a un cratere vulcanico e davanti a questa un albero, dove enormi grovigli rossi spuntano dai rami scheletriti come un’eruzione lavica.

 

Ne Il campo rosso la distesa di papaveri rossi prorompe dal prato della sella di Pradonego, nel quale Giovanna cammina in una notte di nebbia in cui affiora, disperato, il desiderio di un amore non realizzato, unito alla percezione fisica di avere accanto Severino Rizzardi, l’uomo in memoria del quale sta costruendo il rifugio Antelao. Attorno a lei, sotto le rocce, nella profondità delle doline e dei crepacci c’è un mondo in movimento, pronto a manifestarsi, come i fantasmi delle saghe popolari raccolte in Leggende delle Dolomiti, il suo libro d’esordio. Niente è statico e la montagna è pronta a esplodere di vita o di morte.


Werefkin

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