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Cultura

Le Alpi corrono due rischi: diventare il museo di se stesse, oppure ridursi a parco giochi per il piacere dei cittadini. Il Museo delle Alpi (Forte di Bard) individua una terza via

Non è facile raccontare un mondo tanto frastagliato, diversificato al suo interno e così profondamente “multidisciplinare” come quello delle Alpi all’interno di un museo che sappia essere multimediale, immersivo e coinvolgente. La sfida, ci pare, è stata vinta appieno dal Museo delle Alpi, che ha sede nelle sale del Forte di Bard in Valle d’Aosta

di
Luca Trevisan
27 febbraio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Non è facile raccontare un mondo tanto frastagliato, diversificato al suo interno e così profondamente “multidisciplinare” come quello delle Alpi all’interno di un museo che sappia essere multimediale, immersivo e coinvolgente. La sfida, ci pare, è stata vinta appieno dal Museo delle Alpi, che ha sede nelle sale del Forte di Bard in Valle d’Aosta.

 

“Il Museo delle Alpi”, scrive Enrico Camanni che ne è tra gli ideatori e che ne ha curato il progetto scientifico, “è nato intorno alla volontà, o alla necessità, di frantumare lo stereotipo per abbozzare, elaborare e infine divulgare una nuova idea di territorio alpino, sulla scia di quegli studi geografici e antropologici che, sul finire del Novecento, hanno restituito dignità e verità al passato della montagna consentendo di immaginare un futuro emancipato dalla città, ma in stretta interrelazione con essa”. 

È un museo, in buona sostanza, dove i confini tra i contenuti esposti e l’allestimento si assottigliano sin quasi a svaporare, e dove prende vita un percorso immersivo, appunto, che avvolge e coinvolge il visitatore e che riesce a “far raccontare le montagne ai testimoni”, procedendo “in continuo dialogo tra presente e passato, nella certezza che si tratti dell’unico modo per capire e costruire un futuro” (Camanni).

Ma il dialogo non è solo tra presente e passato, bensì anche tra natura e cultura, nella consapevolezza del fatto che, almeno sotto i tremila metri di quota, “non esista più un paesaggio naturale alpino, ma ogni paesaggio sia frutto delle secolari interazioni tra i montanari e il loro ambiente di vita” (Camanni). È anche un dialogo, ci sentiremmo di aggiungere, che si muove nella direzione dello scambio tra locale e globale, entro le coordinate del dibattito che lega centro e periferia.

Il paesaggio naturale non esiste è - inevitabilmente - la scritta a caratteri cubitali che campeggia sulla parete di una delle prime sale del museo. 

Cosa vuole raccontare, dunque, al pubblico questo museo? Sin dal suo inizio, il percorso espositivo sembra voler prendere per mano il visitatore e accompagnarlo alla scoperta, sotto molteplici sfaccettature, delle specificità del mondo in quota. Esso si divide in quattro sezioni.

 

1) La prima - Un mondo complesso: le Alpi di oggi - invita a uscire dalle logiche contemplative e a proiettare lo sguardo “dietro la cartolina”. Le Alpi non sono solo bellezza estatica da ammirare, purezza e wilderness, ma esse sono anche e soprattutto complessità e contraddizioni. “In poco più di due secoli esse hanno subito la più intensa e rapida mutazione della loro storia. Il paesaggio alpino si è riempito di vie ferrate e di autostrade, di trafori e di funivie, di case, alberghi, rifugi”, e di nuovi abitanti che hanno iniziato a popolarlo per ragioni ricreative o di svago, contribuendo a rinnovare la tradizione della civiltà alpina. In questi termini, va detto, “le Alpi contemporanee sono una straordinaria combinazione di presente e di passato, di naturale e di artificiale, in cui tuttavia la relazione con l’ambiente è assai più stretta e decisiva che altrove” (Camanni). Ecco perché le immagini con cui si apre il museo sono molto diverse tra di loro, nel tentativo di riflettere le caleidoscopiche molteplicità dell’universo montano.

 

2) La seconda sezione sposta l’attenzione su Il paesaggio naturale e umano, ragionando su questioni di carattere geologico e sul fatto che la montagna è altitudine e pendenza, il che implica fatica, sicuramente anche stimolo, ma soprattutto sacrificio, necessità di adeguamento, capacità di adottare strategie in grado di trasformare un vincolo in una opportunità. E, come conseguenza, essa è anche il luogo dal clima più ostile, dove l’estate è fatta di “tre mesi di freddo tra nove mesi di gelo”. Ma è soprattutto il luogo della “geografia delle differenze”: differenze geomorfologiche, idrologiche, climatiche ma anche demografiche, politiche, culturali e linguistiche

Una bella sala che ha nel pavimento le Alpi “alla rovescia”, viste cioè da nord (il che ci invita a ribaltare le nostre abitudini e a comprendere come tutto nel mondo sia relativo), racconta alle pareti queste differenze che sono al tempo stesso un punto di forza che tiene insieme l’intero sistema alpino in un mondo che per specificità e tradizioni travalica i confini nazionali, disegnando un nuovo confine invisibile che abbraccia l’intero arco alpino, secondo quanto individuato e proposto nel 1991 dalla nota Convenzione delle Alpi.

Le Alpi vengono allora raccontate come modellate dai ghiacci e dagli eventi atmosferici, prima ancora che dall’uomo, a partire da una formazione che viene davvero da lontano. Sono nate dal mare, precisa l’esposizione: le rocce delle Alpi orientali raccontano una storia lunga quasi 300 milioni di anni, quando antichi rilievi di origine vulcanica e ampie pianure alluvionali erano invase da un mare caldo, basso e poco profondo. Sono nate dal fuoco, prosegue: l’attuale struttura alpina è il risultato della collisione fra placca africana e quella europea, iniziata circa 100 milioni di anni fa, che ha provocato la compressione e il conseguente innalzamento delle rocce. E solo molto più tardi hanno iniziato ad essere luogo di antropizzazione.

3) Proprio questo, allora, è l’aspetto indagato nella terza sezione, dedicata a La civiltà alpina: famiglia e lavoro, riti e miti comunitari. È la sezione dei volti. Dei volti dei bambini, delle donne, dei vecchi e di tanti uomini che su queste montagne si sono spaccati la schiena al fine di adattarle e plasmarle col loro duro lavoro alle esigenze di chi era costretto ad abitarvi. È un percorso che, attraverso ricostruzioni di ambienti reali, immerge il visitatore nel maso, il cui cuore pulsante era rappresentato dalla stube, o in una stalla, cuore della borgata, o ancora nella scuola, cuore della memoria collettiva di una civiltà. 

“Il primo regalo non era uno zaino da montagna”, precisa qui una scritta, “inconsapevole antenato dei colorati zainetti scolastici di cui nessun bambino delle città di oggi conosce la genesi storica, ma era una piccola gerla, metafora del peso e della fatica che i montanari bambini avrebbero dovuto sopportare per il semplice fatto di essere nati in montagna, dove ogni passo è più sudato di un passo di pianura e un pezzo di pane vale il doppio di un pane di pianura. Solo il latte costa meno”.

È un mondo all’apparenza chiuso, arretrato, quello descritto. E invece - e qui sta il paradosso alpino evidenziato dall’antropologo Pier Paolo Viazzo - sorprendentemente più aperto di molti altri, in buona parte per l’effetto della necessità di emigrare stagionalmente al fine di integrare le insufficienti risorse derivanti dalle attività agro-silvo-pastorali. La marginalità diviene allora non una condizione penalizzante ma un punto di forza.

 

4) Ma ad un certo punto la montagna si apre al pubblico di esterni. Ed è, questo, il tema affrontato dalla quarta e ultima sezione del museo, intitolata Il sogno romantico e la modernità

Improvvisamente, a partire dalla metà del XVIII secolo, la città scopre la montagna. È il mito romantico del sublime e del pittoresco, il fascino della vetta, il desiderio di scoperta e di conquista a spingere il cittadino alla montagna. Ma verso una montagna che è ben altra cosa, rispetto alle terre per certo meno sublimi e più faticose abitate per secoli da chi in montagna ha sempre risieduto. Di fronte a queste spinte conoscitive, la montagna si adatta ad accogliere il nuovo pubblico di esterni, come lo abbiamo definito. 

Si preparano le ascensioni al Monte Bianco, sino al successo della prima vetta nel lontano 1786. Inizia la famosa “gara” del 1865 per la conquista del Cervino e poi, una dietro l’altra, di molte altre vette alpine. Una circostanza che nel 1871 farà scrivere a Leslie Stephen che “andare in montagna è uno sport come il cricket” e che “le Alpi sono il terreno di gioco dell’Europa”, attribuendo all’alpinismo una motivazione ludica e sportiva. 

“In poco meno di un secolo, tra la fine del XVIII e la seconda metà del XIX, gli alpinisti abbandonano le motivazioni scientifiche per giustificare le loro ascensioni, affermando il diritto di scalare le montagne per il solo piacere di confrontarsi con la natura alla ricerca di se stessi”. Inizia la stagione dei cosiddetti conquistatori dell’inutile che ci immerge nei nuovi scenari della modernità, e “sono sufficienti pochi anni per trasformare lo sci da mezzo di progressione, quale era stato per millenni prima di essere introdotto nelle Alpi, in attrezzo ludico e sportivo”. La montagna deve allora equipaggiarsi - e lo farà soprattutto nel corso del Novecento e, in particolar modo, a partire dagli anni del boom economico - in funzione dei nuovi frequentatori esterni che diventano ben presto presenze abituali. Al punto tale che quell’inutile degli alpinisti si trasforma rapidamente in un utile per i montanari, che vedono in questa pratica l’occasione di investimento per tentare di frenare l’emorragia umana che, nel XX secolo, aveva iniziato ad intaccare tante comunità montane.

La modernità, dopo la tragedia della Prima guerra (che proprio delle Alpi fece un palcoscenico tra i più drammatici) e la riconquista della pace, ha aperto la stagione delle due montagne: quella dei cittadini e quella dei montanari, apparentemente in rapporto dialettico tra loro e invece non di rado disposte in termini conflittuali.  Investite dai processi di industrializzazione, in un ambiente non sempre adatto ad accoglierli, le montagne cambiano volto e così si trasformano i tempi e i modi di viverla, la montagna: “viene intaccata la monocultura agro-silvo-pastorale, i tradizionali ritmi stagionali della civiltà alpina si integrano con il tempo uniforme della fabbrica. Industria e turismo partecipano alla composizione di un nuovo quadro di vita della montagna, mentre il rapporto fra città e montagna diventa più stretto e intenso che mai” (Camanni). 

“Alla solitaria e faticosa vita di borgata, che coinvolge anche i più piccoli, si contrappongono i ritmi incalzanti dello sci di massa, caratterizzati dai mezzi meccanici di risalita”, recita una scritta in una delle ultime sale del museo.

È con le parole ancora una volta di Enrico Camanni, allora, che vogliamo chiudere: “Con la nuova industria dello sci, che si affaccia tra le due guerre e si afferma nella seconda metà del Novecento, il turismo ricopre le alte valli di luci e di ricchezze, frenando l’esodo verso le pianure, ma rischia di intaccare l’identità e l’unicità alpina. Il turismo spacca in due le Alpi. Nelle valli ricche sorgono alberghi e centri di svago per i cittadini, vere e proprie “città” in quota, mentre nelle valli più povere, e in particolare nella fascia della media montagna, i giovani valligiani sono spesso costretti a scendere verso le fabbriche di pianura, abbandonando la terra e le tradizioni dei padri.

Oggi sulle Alpi convivono così due realtà antitetiche: lo spaesamento indotto dalla modernità e la tentazione della museificazione favorita dalla nostalgia. Il superamento di questa contrapposizione è possibile se ad essa si sostituisce la ricerca di nuove strade da percorrere, esplorando e sperimentando per le Alpi di domani una “terza via” in grado - riprendendo le parole del famoso alpinista Reinhold Messner - di usare gli interessi senza intaccare il capitale costituito dall’ambiente stesso”.

 

È, questa, la sfida cui si deve cercare di dare risposta, comprendendo che perseguire investimenti validi per gli anni Ottanta in un’epoca di crisi climatica, idrica ed energetica come quella in cui stiamo vivendo, non può essere in alcun modo sostenibile. Quel turismo che tanta importanza ebbe nel passato, ha la necessità oggi di essere rivisto e condotto su altri fronti (della mobilità dolce, del fondo, delle tradizioni agro-silvo-pastorali da valorizzare, dei prodotti tipici alimentari, della natura e della storia), più rispettosi dell’ambiente montano e delle sue specificità storiche e culturali: da far scoprire, apprezzare e godere a chi a quel mondo accede da fuori.

 

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