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Cultura

L'architettura nel processo di ripopolamento delle Terre Alte: da Ostana a Dossena tanti esempi del riabitare

Per presentare L'AltraMontagna, il curatore del portale Pietro Lacasella ha intervistato i componenti del comitato scientifico. 

Qui di seguito l'intervista ad Antonio De Rossi.

di
Antonio De Rossi
07 gennaio | 22:16

Per presentare L'AltraMontagna, il curatore del portale Pietro Lacasella ha intervistato i componenti del comitato scientifico. 

Qui di seguito l'intervista ad Antonio De Rossi, docente di Progettazione architettonica al Politecnico di Torino.

 

Nel 1977 Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti ci raccontava una montagna che, attratta da quel potente magnete rappresentato dai poli urbani e industriali, andava progressivamente svuotandosi. Vuoti umani, vuoti economici, vuoti culturali, assenze che invitano a tessere nuove trame sociali e a intrecciarle alle caratteristiche climatiche del presente. Nella consapevolezza che le formule universali non sono semplici da applicare a contesti caleidoscopici, segnati da differenti peculiarità ed esigenze (e Alpi e Appennini sono, appunto, contesti molto variegati), secondo te ci sono delle misure particolarmente efficaci per riattivare l’abitabilità di un territorio?

 

Partiamo da qui. Quel libro che in quegli anni sembrava chiudere definitivamente una storia e un mondo, in realtà – col passare del tempo – mi pare vada anche visto come il punto di inizio di una nuova storia. Sorta di Giano bifronte, mentre chiude, al contempo apre. Perché l’azione che compie Nuto in quella fase storica, insieme a tanti altri soggetti e realtà, è quella di conferire un nuovo e inedito valore simbolico e d’uso ai montanari e alla montagna. Spirito Magno Rosso, classe 1896, l'11 maggio 1974 dice a Nuto: “Oggi in montagna non c'è più modo di vivere. Lo sviluppo economico della pianura è stato troppo rapido, ha attirato tutte le forze valide della montagna, tutti i giovani. Eppure alla lunga la montagna ritornerà buona, ritornerà abitata. Ci vuole qualcosa di grosso, di grave, che faccia di nuovo apprezzare la gente contadina, la nostra montagna”.

Quel qualcosa di grosso è avvenuto e sta avvenendo, in un susseguirsi di crisi ambientali, economiche, culturali, belliche, pandemiche che stanno mettendo in forte discussione i modelli di sviluppo degli ultimi 40 anni. E la città non è più quel luogo di speranza e di emancipazione cui guardavano i montanari nel secondo dopoguerra. I rapporti tra centri e periferie si stanno ridefinendo, e la sensazione è che siano le periferie a prevalere, ovunque. Paradossalmente, ma fino a un certo punto, questo determina una nuova centralità della montagna, immagine forte su cui è venuto a costruirsi quel Manifesto di Camaldoli scaturito dall’incontro del novembre 2019. Per la prima volta dalla nascita dello stato unitario, le aree interne e montane vengono viste non solo come un problema ma anche come un’opportunità.

Questo necessita un nuovo approccio e una nuova visione culturale. Non possiamo più guardare alla montagna solo con le lenti scaturite dalla lettura canonica de “Il mondo dei vinti”. Alla denuncia, si deve affiancare un nuovo progetto al positivo. Perché è una montagna al positivo quella che hanno in testa i tanti giovani che in questi anni stanno risalendo i versanti alpini e appenninici per riabitarli e per realizzarvi i loro progetti di vita e di futuro. E qui sta il punto decisivo: la montagna deve continuare a puntare solo sulla valorizzazione turistica, sulla patrimonializzazione della storia e di quello che già c’è, deve essere sempre e solo sfondo paesaggistico per le aree metropolitane, o può ritornare finalmente a essere un territorio da abitare? Non è il momento di concentrarsi sulla costruzione di nuove economie pertinenti con l’ambiente (dalla nuova agricoltura fino a forme di innovazione tecnologica appropriate), su processi di rigenerazione sociale a base culturale, sulla riformulazione del welfare e dei servizi locali in un’ottica che non sia sempre e solo quella della presunta efficienza urbana e delle soglie minime?

È su questi temi che si gioca la battaglia del futuro. E non solo per le montagne, ma per la totalità dei territori. Perché si avvicina il momento che dai rubinetti nelle grandi città non esca più acqua. Oggi, in un contesto contemporaneo bloccato e incapace di pensare la trasformazione in atto, molte volte l’innovazione viene – come mostrano tante esperienze di riattivazione in corso – da contesti periferici e rarefatti. Perché la dimensione piccola, la presenza di comunità intenzionali, consentono sperimentazioni che nei complessi pachidermi urbani non paiono essere più possibili.

Purtroppo sovente, invece di capire che queste sperimentazioni possono essere utili in primis per le città, si continua a guardare la montagna con occhiali vecchi, come nel caso del Bando Borghi voluto nel 2022 dal Ministero della Cultura, dove l’unico destino possibile per la montagna sembra essere la valorizzazione turistica a partire dalla patrimonializzazione della storia e delle “tradizioni”.

È tempo, invece, di pensare a una montagna contemporanea, forte delle sue specificità e valenze (in primis quelle ambientali e culturali), ma strettamente in rete col mondo.

 

Come si inserisce l’architettura in un processo di ripopolamento?

 

Quello che stiamo sperimentando a Ostana in Piemonte, a Dossena in Lombardia, a Gagliano Aterno in Abruzzo, a Castel del Giudice in Molise, dimostra che il progetto di architettura può avere un ruolo rilevante nel trainare e dare consistenza ai processi di rigenerazione e ripopolamento. Lo è ovviamente in ragione dei contenuti funzionali dei progetti: a Ostana abbiamo realizzato centri culturali e caseifici, housing per i nuovi abitanti e strutture per servizi comunitari. Ma non si tratta solo di questo.

Questi progetti, che sovente sono riusi in un’ottica contemporanea di manufatti già esistenti, danno forma alla riattivazione delle comunità e spazializzano i processi rigenerativi, riattualizzando le eredità del passato e al contempo inscrivendo nuovi usi e significati.

È esattamente il contrario di quanto avviene nei borghi turisticizzati e folclorizzati, dove tramite la creazione di ambientazioni pittoresche, i ristorantini e i gerani ovunque, si vuole costruire una scenografia artificiale destinata a ripetere come in una sorta di eterno presente il cliché e lo stereotipo di qualcosa che non è mai esistito.

Alla montagna servono meno gerani e scenari idealizzati, e magari più centri di competenza nelle valli capaci di intrecciare i savoir faire della montagna con l’innovazione tecnologica proveniente da città e università, in modo da generare nuovi saperi all’altezza con le difficili sfide del prossimo futuro.

 

La narrazione della montagna, spesso condizionata da cliché di matrice turistica, ha bisogno di essere rivisitata? In altre parole: c’è la necessità di raccontare un’AltraMontagna?

 

Naturalmente è un tema centrale. Dobbiamo rendere visibile il fatto che la montagna può essere abitabile e produttiva (e non solo soggetto passivo di consumo e protezione), può e deve essere contemporanea senza per questo rigettare la sua storia, e può insegnare molto in termini di sperimentazioni e innovazioni. Servono racconti al positivo, fondamentali per uscire dal fatalismo che attraversa tante comunità alpine e appenniniche. Servono narrazioni non solo di super eroi capaci di vivere in condizioni estreme, che in fondo non sono altro che riproposizioni di cliché di matrice urbana nati nel ‘700, ma narrazioni “normali”, di persone e comunità normali. Perché oggi in montagna è possibile delineare un progetto di un nuovo riabitare.

l'autore
Antonio De Rossi

Architetto e docente universitario. È professore ordinario in progettazione architettonica e urbana e direttore del centro di ricerca “Istituto di Architettura Montana” (IAM) presso il Dipartimento di Architettura e Design (DAD) del Politecnico di Torino. Da tempo si occupa di trasformazioni contemporanee del territorio e del paesaggio alpino e di storia dell'architettura moderna in montagna. Numerosi suoi libri e saggi sull'argomento sono stati pubblicati in Italia e all'estero. Tra le sue pubblicazioni, l'opera in due volumi La costruzione delle Alpi (Donzelli, 2014, 2016).

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