"La pace non è il dolce far niente, ma il duro lavoro dell'uomo nella natura": un incrocio di sguardi e pensieri tra Gianni e Mario Rigoni Stern
Un pomeriggio di pioggia a casa di Gianni Rigoni Stern e di sua moglie Lella. Un incrocio di sguardi e la frase di un libro che ritorna alla mente: una riflessione che unisce l’idea di costruzione della pace a quella di cura del territorio
Ci sono giorni, a fine estate, in cui percepisci chiaramente che nell’atmosfera qualcosa si è rotto, che un patto segreto è saltato, che l’autunno ha vinto un misterioso braccio di ferro nei cieli. Piove a dirotto da un cielo grigio e denso, l’aria profuma di terra e si inizia a percepire appena il caratteristico odore delle foglie marce. Le folate di vento ti fanno rizzare i peli delle braccia e capisci così che non è più tempo di maniche corte.
Cosa c’è di meglio, in queste giornate uggiose e apparentemente meste, di andare a trovare un amico? Di discutere assieme, tra un caffè e una grappa, di progetti e di massimi sistemi? Cosa c’è di meglio, nei pochi attimi di silenzio, di ascoltare la pioggia e osservare la montagna invasa dai primi segni dell’autunno alle porte?
È stato in un giorno così che, insieme a Pietro, sono stato a far visita a Gianni e a sua moglie Lella, nella loro casa posta a guardia dell’Altipiano dei Sette Comuni. Volevamo ringraziarlo per averci aiutato nella stesura di Sottocorteccia, il nostro libro sull’emergenza bostrico. E volevo accordarmi con lui su una serata che, di lì a qualche giorno, ci avrebbe visti insieme sul palco: per ricordare suo padre – Mario Rigoni Stern – e per raccontare del progetto di “zootecnia umanitaria” che lo vede impegnato da quindici anni tra Italia e Bosnia: la “Transumanza della pace”.
Ha unito idealmente due Altipiani quel visionario di Gianni, con un’umanità, una caparbietà e una concretezza da lasciare a bocca aperta: i suoi Sette Comuni e Sućeska, teatro del terribile genocidio di Srebrenica, dove nel luglio 1995 circa 8.400 musulmani bosniaci furono uccisi in poche ore per mano delle truppe serbo-bosniache.
Gianni, negli anni, ha portato alle vedove di Srebrenica decine di vacche da latte e attrezzature indispensabili, ha ristrutturato stalle e insegnato come si allevano gli animali, ha finalmente sconfitto la maledetta felce aquilina, simbolo dell’abbandono di prati e pascoli e veleno per i bovini. Ha così ricreato un paesaggio culturale laddove la distruzione della guerra aveva lasciato spazio incontrollato al selvatico, tra gli scheletri bruciati dei vecchi fienili e i fantasmi della storia.
La Bosnia c’è sempre nei racconti di Gianni, e poi ci sono orsi e lupi problematici, abeti rossi fragili, inequivocabili curve demografiche di abitanti e animali della montagna italiana, perplessità su idee “moderne” attorno ad alberi da abbracciare e riflessioni su una società, la nostra, che più corre più sente la necessità di fermarsi a prendere fiato.
Il tempo è volato, tra una risata, un silenzio, un pensiero e… un altro giro di rakija.
Ci siamo salutati con fissata dentro agli occhi l’immagine di un bambino, torso nudo e stivali ai piedi, sguardo fiero e consapevole, di fronte alla sua nuova stalla, costruita e popolata proprio grazie a Gianni.
“Quello che faccio è soprattutto per quelli come lui”, ci ha detto con orgoglio, mostrandoci la fotografia di quel piccolo allevatore. “Lui sa tutto delle sue vacche: come stanno, quanto latte fanno, quando hanno partorito”. Se Gianni ha sconfitto la felce nei pascoli, sono bambini come quello che avranno il compito di non farla ritornare e di ripopolare quell’area dove la morte ha rischiato di prevalere sulla vita.
Stavamo per uscire sotto l’acquazzone quando la gentilezza di Gianni ha prevalso ancora una volta: “Passiamo da sotto, così vi bagnate di meno!”
Ed è proprio scendendo le scale che, in una frazione di secondo, ho capito di avere di fronte un’immagine potente, delicata e al tempo stesso commovente: d’istinto ho afferrato lo smartphone e ho “rubato” una fotografia.
Gianni e Mario, figlio e padre, uno di fronte all’altro, in un incrocio di sguardi. Gianni in carne ed ossa, Mario in un bellissimo ritratto in bianco e nero.
Uscendo nella pioggia mi sono così ricordato di un passaggio del libro di Gianni - “Ti ho sconfitto felce aquilina” - in cui il fortissimo legame tra padre e figlio viene raccontato attraverso una riflessione profonda, che unisce l’idea di costruzione della pace a quella di cura del territorio. Un collegamento tra guerre diverse, ma lo stesso sogno pragmatico di due uomini di montagna e di pace.
Tornato a casa sono andato a cercare quelle parole. Erano sottolineate, eccole qui:
“Al di là di qualsiasi retorica buonista, lui ebbe sempre ben chiaro un concetto: che la pace è soprattutto un lavoro, e un lavoro molto duro, anche più della guerra, perché la pace non è il dolce far niente, il lasciar correre, l'ozio dei popoli, ma al contrario è l'impegno specifico attraverso il quale l'uomo innesta la propria azione in quella della natura e ne contempla il disegno, fruendo saggiamente delle sue risorse e governandola.
Un compito immane, visto le poche forze di cui dispone l'uomo rispetto a quelle gigantesche della natura, e che pertanto non può lasciar tregua. Ed è proprio quando questo compito vien meno nella sensibilità dei potenti della terra che torna ad affacciarsi la tentazione della guerra, lo scatenarsi artato e strumentale di una bieca animosità tra popoli, di per sé tutti naturalmente vocati all'esercizio della pace. La guerra è così una specie di scorciatoia vile, un tradimento, un barare a quel grande gioco che sarebbe invece per l'uomo il legittimarsi del proprio posto nel mondo, insieme alla natura e con la natura.
Questo è quello che mio padre ha cercato di insegnare a quanti gli hanno voluto bene e hanno avuto l'opportunità di conoscerlo anche oltre le pagine dei suoi libri, e quindi anche a me e ai miei fratelli. Alla luce di questi insegnamenti, che a casa nostra erano una specie di vangelo quotidiano, per me non è stato difficile intraprendere la strada delle scienze forestali, che mi ha portato ad occuparmi per tutta la vita lavorativa della gestione dei boschi, delle settantasette malghe della nostra giurisdizione amministrativa e del patrimonio faunistico del nostro Altipiano”.
Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.