La natura non è buona né cattiva: siamo noi a conferirle una carica simbolica. I significati che diamo ad alberi e paesaggi nell'arte di Rembrandt
Da uno scambio di messaggi tra due nostri collaboratori (uno esperto di alberi, l'altro di arte), un’immersione nell’arte del grande artista olandese attraverso un quadro da lui firmato, ma chissà, forse neanche del tutto suo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Sembra una maledizione: ovunque vada, mi capita di trovarmi di fronte a storie di alberi.
In realtà non si tratta di strane stregonerie, semplicemente “l’occhio vede ciò che la mente conosce” e così, anche fuori dai contesti lavorativi e forestali, spesso mi ritrovo a ragionare di boschi e di temi ad essi connessi.
Durante una visita di Cracovia, in Polonia, desideravo semplicemente visitare il Museo Czartoryski, per osservare da vicino, oltre a tantissime opere d’arte e collezioni legate alla storia del Paese, un quadro tra i più famosi e preziosi al mondo: la “Dama con l’ermellino” di Leonardo da Vinci.
Ma oltre al dipinto di Leonardo, un'altra opera dall’inestimabile valore custodita in quel museo era ovunque segnalata come imperdibile: il “Paesaggio con il buon samaritano” di Rembrandt. È stato di fronte a questo quadro che la mia “maledizione” è tornata a manifestarsi.
Immaginavo una scena composta unicamente dalle figure umane raccontate nella nota parabola narrata da Gesù nel Vangelo di Luca: l’uomo derubato e moribondo, il sacerdote e il levita che non si occupano di lui e proseguono per la loro strada con indifferenza e infine il samaritano, che nonostante le differenze culturali e religiose si prende cura del prossimo come di sé tesso.
E invece, mi sono trovato di fronte a un grandissimo albero, che occupa quasi un terzo dell’immagine ritratta dal grande pittore olandese. Una pianta maestosa ma contorta, con un grande ramo secco e un altro spezzato che giace a terra, ma con la restante parte della chioma ancora viva e folta. L’albero taglia nettamente in due il paesaggio, che da un lato appare boscoso e oscuro, avvolto da nubi temporalesche, dall’altro invece sereno, luminoso, caratterizzato da prati, mulini a vento, due cascatelle d’acqua e una luce eterea che squarcia il cielo e dona tridimensionalità all’intera scena ritratta.
È chiaro come Rembrandt volesse utilizzare questo evidente contrasto paesaggistico per dare enfasi alla parabola del buon samaritano: i due tratti umani che caratterizzano i protagonisti, indifferenza ed empatia, si riflettono nell’albero e nella natura che domina incontrastata il dipinto. Le figure umane, al contrario, appaiono piccole, quasi non si notano, del tutto marginali rispetto alla potenza simbolica del monumento arboreo e degli altri elementi naturali.
Due cose ho pensato dopo i primi attimi di fascinazione di fronte a quest’opera d’arte straordinaria.
La prima è che tutti noi - Rembrandt lo sapeva bene - siamo portati ad associare alla natura sentimenti, simbolismi e pulsioni che in fondo sono del tutto umani, che nascono dall’esperienza umana e che poco hanno a che fare con la natura in quanto tale. Questo ci colpisce, ci affascina, ci emoziona, ci commuove, ed è bellissimo. Ma talvolta ci trae anche in inganno, quando inconsapevolmente superiamo il confine tra il coinvolgimento in un’efficace metafora e la lettura della realtà.
Da qui la seconda considerazione, evidentissima nell’opera del grande artista: la natura, a differenza di come talvolta siamo portati a percepirla, non è in sé né buona né cattiva, è un insieme di elementi, tra loro in equilibrio dinamico, che seguono leggi in buona parte diverse dalle nostre, che devono essere comprese, rispettate, talvolta gestite per evitare che ci si ritorcano contro.
Ho pensato che quel grande albero posto tra luce e oscurità, in parte secco, in parte ferito, ma ancora vivo, ha in sé l’ammaliante fascino della natura osservata e reinterpretata con occhi umani, il magico potere della metafora, ma al tempo stesso non è altro che l'immagine di un vetusto vegetale in fase di lenta senescenza. Sono io, siamo noi a conferirgli un significato, ad accostarlo al povero uomo malmenato dai briganti e salvato dal buon samaritano. Sono io, siamo noi, o meglio, è stato Rembrandt, a renderlo immortale insieme all’acqua, alle nuvole, alla luce.
Anche tutto questo fa parte del complesso, affascinante, talvolta difficile rapporto tra alberi, natura, animali ed esseri umani. Un legame che, proprio come un quadro, va al tempo stesso vissuto con mente aperta alla meraviglia ed esplorato con cura, per imparare a leggerne ogni profondo significato.
Ma in fondo, che ne so io di Rembrandt?
Così mi sono chiesto mentre elaboravo questi pensieri in bilico. Allora ho afferrato lo smartphone (cosa che non amo fare in un museo), ho fotografato il quadro (rigorosamente senza flash) e ho spedito un messaggio a Silvio Lacasella, artista, collega de L'AltraMontagna e ottimo narratore dell'arte che ha a che fare con la natura. Mi avrebbe sicuramente illuminato sulla vita dell'artista e su questo quadro in particolare.
In realtà, volevo fargli anche un po' invidia: io, povero forestale poco avvezzo alle cose d'arte, di fronte ad un maestoso albero dipinto da Rembrandt... e tu?
Il più delle volte c’è una ragione se le cose accadono, ma non sempre è così. In certi casi, accadono e basta: per necessità, perché lo vuole la sorte o, semplicemente, perché è arrivato il loro momento. L’arte lo dimostra: la ragione giustifica la presenza dell’opera, questo è evidente, ma produrla è una necessità solo interiore, essa sarebbe poca cosa se fornisse risposte precise o adeguate alle aspettative di chi vi cerca visioni rassicuranti. Più che fornire risposte, spariglia le carte e crea nuovi interrogativi l’arte. La sua funzione è favorire stati d’animo irrazionali, capaci però di infondere consapevolezza al nostro vivere. Ecco perché, a differenza di quanto vorrebbe il mercato, condividere la bellezza non può uniformare l’emozione che l’artista procura.
Sapevo che Luigi, partito da Trieste, era arrivato a Cracovia, nel sud della Polonia, in sella alla sua bicicletta: terre solcate dalla Vistola e sorvegliate dai Carpazi. Mai, però, avrei potuto immaginare che, nel visitare la città, mi avrebbe mandato questo messaggio: “Oggi a Cracovia ho visto il Paesaggio con la parabola del buon samaritano di Rembrandt, straordinario”.
Dopo averlo letto, ho reagito come chi viene colto impreparato proprio in una delle materie che pensa di conoscere meglio: Rembrandt, infatti, a pari merito con pochi altri, è in testa alla classifica dei miei grandi amori. Non solo non ho mai osservato da vicino quel quadro, ma proprio non l’avevo mai visto. Eppure, a differenza di quanto il titolo potrebbe far intendere, sostanzialmente è un Paesaggio, uno dei pochissimi da lui dipinti: sette o otto in tutto. Come non bastasse, nella misura che il telefonino concede allo sguardo, subito mi sembra molto bello. Lo cerco in tutti i miei libri. Niente da fare, non lo trovo. Inserito nel posto sbagliato, esce dagli scaffali persino il catalogo della mostra di Amsterdam del 2006, organizzata per celebrare i quattrocento anni della nascita di questo immenso artista. In quella occasione si pensò di accostare venti sue tele a quindici dipinti di Caravaggio, così da compararne le affinità nell’utilizzo della luce, ma anche per indicare, una volta per tutte, quali grandi differenze separino le due personalità stilistiche: sfogliando velocemente il catalogo, penso subito che il più fiammingo dei due pare Caravaggio. Ad accomunarli è il modo di intendere la luce. Pur non visitando mai il nostro paese, Rembrandt, che aveva quattro anni quando Caravaggio morì, riuscì a far sua, con prodigiosa maestria, la capacità di direzionarne l’intensità luminosa, per trasformare le presenze in apparizioni e per indicare all’osservatore quale via seguire per entrare nel racconto. Attraverso un artificio psicologico, entrambi hanno saputo rappresentare la realtà.
Vorrei rispondere subito a Luigi, però non trovo traccia di quel quadro e il senso di colpa aumenta. Facendo ricorso alla tecnologia, l’unica cosa che trovo in internet è una scheda inserita nel sito del Museo Czartoryski, dove tra l’altro leggo che il dipinto, acquisito dai principi al cui nome è dedicata un’ala dell’edificio, è stato recuperato dopo le razzie naziste del 1939. In quell’occasione tre furono i quadri sottratti: il Rembrandt, la celeberrima “Dama con l’Ermellino” di Leonardo (anch’esso restituito a Cracovia a guerra terminata) e un “Ritratto di giovane” di Raffaello, mai più riapparso.
Del medesimo passaggio biblico ricordavo una versione attribuita a Rembrandt (oggi a Londra), assegnata in seguito, come tanti altri dipinti, a uno dei suoi capacissimi allievi che, alternandosi a bottega, accompagnarono ad Amsterdam l’attività del maestro. Quelli con più talento egli se li tenne stretti, promuovendoli da allievi e collaboratori, così da utilizzarli nella stesura dei dipinti per soddisfare le numerose richieste.
Intanto, per far passare il tempo, con astuzia rispondo al messaggio di Luigi, rimproverandogli di essere in un posto che io non ho mai visitato, aggiungendo: “Sei proprio certo che quel quadro sia suo?”. A quel punto mi manda il dettaglio della foto con la firma ingrandita. Ma anche questa non è una prova. Alcune opere non sue, infatti, furono messe in circolazione firmate dallo stesso Rembrandt per premiarne la bellezza, oltre che per sanare parte dei debiti che andava accumulando. Agli inizi del Novecento gli venivano attribuiti oltre mille dipinti; attorno agli anni Sessanta il numero si ridusse a seicento; oggi gli studiosi ne contano circa trecento, ma tra riabilitazioni e nuovi declassamenti il numero è destinato a oscillare senza sosta. Lo stesso si potrebbe dire per i disegni.
Un messaggio, quello arrivato da Luigi, che pare essere stato spinto da un vento inatteso, autunnale, che porta con sé proprio i colori rugginosi e caldi maggiormente amati dal grande maestro olandese. La sua vita prende il via a Leida, in Olanda, dove Rembrandt van Rijn (“del Reno”) nasce il 15 luglio 1606 (morirà nel 1669). A differenza di quanto decise per i fratelli, l’agiato padre mugnaio lo iscriverà nella allora prestigiosa Scuola Latina. Dopo averla frequentata per tre anni, i modesti risultati conseguiti nei successivi mesi di Università e la crescente passione per l’arte, convinsero i genitori a farlo entrare a bottega da Jacob Swanenburg. Quindi, dopo altri tre anni, per favorirne il grande talento, il passaggio ad Amsterdam, nel 1623, in apprendistato da Pieter Lastman, che all’epoca godeva una notorietà confermata dal gran numero dei committenti.
In seguito ritorna a Leida, dove stringe una stretta collaborazione con Jan Lievens, di due anni più giovane, la cui tavolozza evidenziava la vicinanza con i caravaggisti di Utrecht. Ecco, questi sono gli inizi di Rembrandt. Animo forte e indipendente, concentrato nella piena consapevolezza del proprio genio. Caparbio, attento a non entrare negli schemi consolidati dell’epoca prevalentemente legati al passato: la tradizione fiamminga di un’arte minuziosamente descrittiva, nella quale alla luce si chiedeva di far risaltare ogni elemento all’interno del dipinto. Rembrandt, invece, la utilizzava per effettuare improvvise incursioni all’interno del soggetto, sia per sfaldare la forma, lasciando che si depositasse come sabbia in ampie zone della tela, sia per mettere a fuoco la bellezza di alcuni particolari in modo da trasmettere, tramite essi, la propria interiorità.
Con il passare degli anni la pasta pittorica si fa grumosa e scabra. Il colore sembra affiorare in superficie formando placche imperforabili, tra le quali scorrono correnti ancora fluide. Proprio come fu per l’ultimo Tiziano, questa andatura caratterizzerà l’inarrivabile sua resa espressiva.
Il suo percorso lo si legge in modo nitido osservando i numerosi autoritratti, dipinti con implacabile fedeltà (oltre trenta dipinti, ventisei acqueforti e dodici disegni). Nel bianco e nero della carta o, per meglio dire, nel giallo oro della matrice in rame: quante lastre ha inciso di sua mano l’artista olandese e quante, invece, l’“officina Rembrandt”, col suo “caporeparto” Jan Joris van Vliet? Non lo sapremo mai. Vicino alle 280 è la stima più recente indicata dagli studiosi.
Alla magistrale sensibilità del segno, egli unì le peculiarità tecniche che il tramite calcografico consentiva, trasferendo l’intero suo mondo nei solchi del metallo. Una lingua nuova e un viaggio appassionante, in un mondo - quello dell’incisione - in grande misura ancora inesplorato.
“Paesaggio col buon samaritano” è un quadro di notevole bellezza. La scheda lo descrive così: “Il dipinto del 1638 presenta sia elementi biblici (come il sacerdote e il levita, una città orientale, una palma ai margini del bosco) sia elementi della realtà olandese seicentesca (mulini a vento sui muri della città, una carrozza). In questo modo, l'artista ha posto l'accento sull'immutabilità del messaggio biblico, sull'amore del prossimo e sulla misericordia, la cui importanza è stata sottolineata negli insegnamenti di Cristo e che costituiscono l'essenza dell'umanità fino ai giorni nostri”. Tutto corrisponde. Quello che non viene sottolineato è che, per impeto e intenzione compositiva, quest’opera guarda avanti, in direzione di Turner, ponendo in risalto la grandezza di una natura caratterizzata da umori imprevedibili e inarrestabili. Una natura che protegge e, al contempo, allarma il nostro vivere. L’albero gigantesco raffigurato in primo piano, il cielo ancora minaccioso, il ramo crollato a terra conducono anche a Friedrich.
Per quanto si fatichi a vedere del Romanticismo in Rembrandt, la cui mente era assai “terrena”, Joachim von Sandrart (1606-1688), uno dei padri della storiografia artistica, dirà di lui: “Egli asseriva che occorre lasciarsi guidare soltanto dalla natura e non da altre leggi, a seconda delle circostanze, giudicava favorevolmente in un quadro, le luci, le ombre e i contorni degli oggetti, anche se erano in contrasto con le regole elementari della prospettiva, purché, a suo parere, fossero appropriate ed efficaci”. Anche solo da questa considerazione, che pare essere stata scritta per un artista dei nostri giorni, si può capire quanto rivoluzionaria sia stata agli occhi dei contemporanei l’arte di Rembrandt.