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Cultura

"In montagna le verdure ci sono, proponiamole. Non sempre specialità locali coincidono con quel che il territorio offre". A SuperPark lo chef-scrittore Tommaso Melilli

Il cibo e l’arte della ristorazione come vocazione, come mestiere, come espressione di un’identità territoriale, e come argomento di narrazione: di questo e altro si parlerà domenica prossima - 7 luglio - in Trentino, dove approderà, per una delle escursioni d’autore del progetto SuperPark, realizzato dal Parco Naturale Adamello Brenta assieme a Impact Hub, Tommaso Melilli, chef e scrittore nato a Cremona nel 1990

di
Marco Pontoni
04 luglio | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Il cibo e l’arte della ristorazione come vocazione, come mestiere, come espressione di un’identità territoriale, e come argomento di narrazione: di questo e altro si parlerà domenica prossima - 7 luglio - in Trentino, dove approderà, per una delle escursioni d’autore del progetto SuperPark, realizzato dal Parco Naturale Adamello Brenta assieme a Impact Hub, Tommaso Melilli, chef e scrittore nato a Cremona nel 1990. Una nuova occasione per chi parteciperà all’escursione di confrontarsi con una persona che non è nata in montagna e non può essere considerata l’espressione di una cultura di montagna, il che è precisamente uno degli obiettivi del Parco, come sottolinea il suo presidente Walter Ferrazza: “Vogliamo incrociare i saperi, le culture, le professioni, ospitando come in questo caso anche persone che si sono formate in un ambiente metropolitano, nella consapevolezza che una realtà come la nostra debba sempre aprirsi ad altri mondi e ad altri linguaggi, per scambiare impressioni, stimoli, suggestioni. Dalla scrittrice al regista, dallo chef alla musicista o al fotografo, gli ospiti di SuperPark ci aiutano a guardare alle nostre montagne, all’ambiente nel quale siamo immersi tutti i giorni, con occhi diversi. Noi, a nostra volta, anche attraverso le nostre guide, che accompagnano sempre gli escursionisti, proponiamo il nostro bagaglio di conoscenze e di esperienze, e questo incontro ha sempre, ci pare, qualcosa di utile e di gradito a chi vi partecipa”.

 

Dopo il liceo Melilli si è trasferito a Parigi per studiare letteratura. E lo ha fatto per tre anni, finché ha cominciato a lavorare in un piccolo bistrot e poi in altri ristoranti del nord-est di Parigi. Oggi gestisce un La Trattoria della Gloria sui Navigli di Milano, ha pubblicato diversi libri in francese e due anche in Italia, per Einaudi I conti con l’oste (2020) e Cucina aperta per 66thand2nd (2024), cura sul Venerdì di Repubblica la rubrica di ricette “Pentole e parole” ed è uno dei fondatori deL’IntegraleRivista di pane, vino e cultura. In Trentino sarà l’ospite speciale dell’escursione che partendo dal Doss del Sabion, nel cuore delle Dolomiti di Brenta, attraverso pascoli e boschetti, raggiungerà la località Prà Rodont, sopra Pinzolo.

 

Melilli, iniziamo parlando di cucina e narrazione. Quando io ero bambino, negli anni 70, la narrazione attorno al cibo mi sembra fosse molto limitata. Oggi è estremamente varia e sofisticata.  Cos’è successo?

Oggi è più varia, non necessariamente più sofisticata. Fino all’Illuminismo cibo e cultura alimentare erano la stessa cosa. Quello che è successo è che in seguito la cultura gastronomica ha trovato degli spazi di mercato: in particolare i ristoranti, che nascono alla fine del 700, e già lì c’è una sfida, farli accettare dal punto di vista culturale. Poi più avanti nell’800 si diffondono in alcuni paesi i libri di ricette. Meno in Italia dove non ne avevamo molti, a parte l’Artusi, mentre nei paesi anglosassoni se ne sono letti sempre tanti. Più recentemente abbiamo avuto un’ultima “rivoluzione industriale”, quella dei cibi pronti, che ha creato di riflesso il bisogno di riappropriarsi della capacità di fare da mangiare, persino da noi. In Italia questa rivoluzione la stiamo vivendo adesso, ma altrove da decenni i supermercati sono pieni di prodotti già pronti, da scaldare in forno.

 

Lei è nato a Cremona, poi si è spostato a Parigi per gli studi universitari, che erano studi di letteratura. E qui è approdato al mondo della cucina.  Cos’è successo?

Ho iniziato lavorando in un posto molto piccolo. Il motivo per cui ho cominciato era il mio bisogno di una vita più movimentata e di toccare le cose. Mi sono convinto che non bastasse vivere nel mondo culturale e letterario per conoscere, ad esempio, una città come Parigi, e per diventare grandi. Se stai nei ristoranti e nei bar le cose succedono. Li ho cominciato a divertirmi, e ad imparare diversi livelli di francese. Vedevo i cuochi e mi sembravano delle rockstar. Non avevo una famiglia del ramo, avevo un nonno gastronomo ma niente di sconvolgente, una nonna che faceva da mangiare... Erano cresciuti con l’idea “classica”: che bello riuscire a vivere, e a crescere, senza dover fare un mestiere manuale. Piuttosto era meglio la schifezza di un lavoro d’ufficio qualunque. Invece, io sono più contento così. Non ho mai avuto voglia di andare in ufficio anche se lavoro 15 ore al giorno.

 

Che differenze ha trovato nel modo di approcciare il mondo della cucina fra Francia e Italia?

La Francia è un paese di cuochi. L’Italia è un paese di persone che sanno cucinare. È molto diverso. In Francia la formazione era più solida, storicamente. In Italia si pensava che a casa si mangia bene, al ristorante si mangia quello che capita e spesso per bisogno, per esigenze di lavoro. Oggi le cose si sono un po’ mescolate, soprattutto in città. Tendiamo ad andare sempre di più al ristorante, a vari livelli. Abbiamo più aspettative, desideriamo di più da quest’esperienza. Anche con meno spesa. Vogliamo mangiare bene anche senza andare da uno stellato.

 

Nella narrazione sulla cucina e il cibo che vediamo ad esempio nelle serie tv l’accento è posto sulla fatica, sullo stress di chi sta ai fornelli. È una narrazione realistica? E che rapporto c’è fra quel modo di lavorare  e l’etica del lavoro comunemente intesa?

Io ho vissuto un po’ di tutto. Luoghi decorosi e orari di lavoro accettabili, altri più complicati con carichi di lavoro e tensione difficili da gestire.  Ma cosa si può fare oggi? Gli stellati poco perché stanno annegando nei debiti e non possono migliorare. Noi della fascia della ristorazione “informale” stiamo cercando di fare il possibile. Ma nella consapevolezza che ci sono cose insite in questo mestiere, in questa vita, che non possono cambiare. In un ristorante abbiamo mediamente un team di 6-15 persone in cui i proprietari sono parte dello staff e lavorano come gli altri, anzi, magari di più. In una situazione del genere è difficile mancare di rispetto ai colleghi, perché si vivono le stesse condizioni. D’altro canto ci sono regole e esigenze molto semplici ed elementari da ricordare, anche se non sono obbligatorie per legge: ad esempio, due giorni di riposo consecutivi, mentre di solito ce n’è solo uno. E: sorpresa! I posti che funzionano meglio oggi sono quelli che rispettano queste regole e queste esigenze. È anche il mercato della forza lavoro che ti porta in quella direzione. Nei luoghi dove le condizioni di lavoro sono migliori il lavoratore si ferma, rimane.  

 

Altre cose però sono immodificabili, dicevi.

Sì, per quanto si possa tendere sempre a un miglioramento delle condizioni questo rimane un mestiere difficile, in cui si lavora mediamente almeno 50 ore la settimana, in cui il caldo, l’adrenalina, la fatica fisica, l’emergenza, il dover prendere decisioni in pochissimo tempo, sono componenti che non possono sparire. Ci sono delle migliorie, che arrivano col tempo,  ad esempio i forni che si lavano da soli. Grazie a dio li hanno inventati! Però: se sei in barca, e c’è la tempesta, il capitano deve decidere cosa fare e dire agli altri cosa fare a loro volta. Se ognuno si comporta come necessario poi forse ci si salva. Oppure si può fare una riunione. E non funzionerebbe. Noi non possiamo fare una riunione, nel pieno della serata. Possiamo programmare il lavoro prima. Ma se accade un’emergenza dobbiamo decidere. Altrimenti…

 

Altrimenti?

Altrimenti fai ristorazione banale, noiosa, la ristorazione delle fate, la chiamo, e non funziona. È giusto secondo me pensare che ci sono alcuni mestieri che sono così. La vita di un cuoco o di un chirurgo  fondamentalmente è la stessa, anche se, quando noi sbagliamo al massimo qualcuno digerisce male, mentre se sbaglia il chirurgo manda qualcuno al creatore.

 

Ha aperto un ristorante importante a Milano, la Trattoria della Gloria, sui Navigli. Qual è la filosofia a cui si ispira?

Trattoria era il nome storico, avrei voluto chiamarlo solo Gloria. Volevo evitare la parola “trattoria” perché è diventata un brand, che evoca un passato magico, che non è reale. “Ristorante” è una parola bellissima perché include fin dall’origine l’idea di ristorare, di fare del bene. Il posto è come un bistrot parigino, non c’è distinzione fra primi e secondi, abbiamo 5-6 piatti che cambiano spesso. Faccio nel migliore dei modi possibili quello che ho sempre fatto. Accoglienza intima, selvatica, affettuosa, un po’ alcolica, e poi una cucina viva, divertente, che cambia spesso. Domenica avevamo ad esempio quasi tutti piatti arabi. È importante rendere vivo lo spazio anche per il quartiere, c’è chi viene 3 volte alla settimana e si sorprende che i piatti varino sempre. Mediamente diamo da mangiare a 50 – 70 persone. Che non sono poche. La scelta è di tenere sotto controllo il numero di piatti. Non c’è un altro menù. Se avessi molti piatti in menù rischierei di venderne 2 porzioni a serata, il che significa che o sono surgelate o stanno lì per giorni. E poi, lavorare sarebbe una barba.

 

Verrà in Trentino, terra di montagna. In Trentino l’equazione classica è cucina-identità territoriale. Cosa ne pensa di questa visione, delle esortazioni a consumare i prodotti della propria terra, a km. 0 e così via?

Fermo restando che ciascuno di noi col favore delle tenebre se può mangia dove vuole e quello che vuole, anche le peggiori schifezze, il punto sono i ragionamenti collettivi, le cose che carichiamo di significato. Sarebbe bello di base distinguere fra specialità locali e invece quello che potrebbe offrire realmente il territorio. Non sempre le due cose coincidono. Sono stato in Trentino poco tempo fa e diverse persone si lamentavano del fatto che i ristoranti presentano sempre le stesse quattro cose, lo stinco, la polenta… Ma da dove viene il problema? Sono i ristoranti che non vogliono fare altro o è la clientela che è troppo identitaria? Entrambe le cose, credo.

 

Lei è favorevole agli incroci e alle commistioni.

Io sono favorevole ad un incrocio di sapori, di competenze, anche di agricolture. Per esempio: facciamo trovare le verdure, anche in montagna. Che ci sono. Il problema non è il km. 0, è quando non si usa niente di quello che si produce nei 20 km. attorno.

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