"Ho tradito Dino Buzzati cercando di essergli fedele". Il fumettista Lorenzo Mattotti racconta 'La famosa invasione degli orsi in Sicilia', diventata nel 2019 un film d’animazione per sua iniziativa
La famosa invasione degli orsi in Sicilia, storia raccontata da Dino Buzzati, nel 2019 è diventata un film d’animazione per iniziativa di Lorenzo Mattotti, grande maestro del fumetto, illustratore, regista e sceneggiatore, il cui film verrà proiettato lunedì – 24 giugno – all’Antica Vetreria di Carisolo, nell’ambito della nuova edizione di Superpark, l’iniziativa estiva del Parco Naturale Adamello Brenta, realizzata in collaborazione con Impact Hub Trentino
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Nel tentativo di ritrovare il figlio e di sopravvivere all'inverno, il Re degli orsi conduce il suo popolo dalle montagne fino alla pianura, in Sicilia, dove vivono gli uomini. Dopo aver sconfitto il malvagio Granduca e aver ritrovato il figlio Tonio, però, si renderà conto che gli orsi non sono fatti per vivere nella terra degli uomini.
È, in strettissima sintesi, la storia raccontata da Dino Buzzati ne La famosa invasione degli orsi in Sicilia, scritto e illustrato dallo stesso scrittore e pubblicato nel 1945 a puntate sul Corriere dei Piccoli, ma poi ripubblicato più volte negli anni in volume in un'edizione completamente rivista.
L’opera è diventata nel 2019 un film d’animazione per iniziativa di Lorenzo Mattotti, grande maestro del fumetto, illustratore, regista e sceneggiatore, il cui film verrà proiettato lunedì – 24 giugno – all’Antica Vetreria di Carisolo, nell’ambito della nuova edizione di Superpark, l’iniziativa estiva del Parco Naturale Adamello Brenta, realizzata in collaborazione con Impact Hub Trentino.
Mattotti interverrà in videoconferenza da Parigi, dove l’abbiamo raggiunto per questa chiacchierata. In questi giorni le sue immagini che illustrano le discipline paraolimpiche sono in tutte le stazioni della metro di Parigi e in 25 stazioni della Francia. Al Beaubourg parigino invece sono presenti di una grande mostra sul fumetto, che rende giustamente giustizia a questa arte.
Partiamo da Buzzati: come nasce questo connubio fra l’arte di Mattotti e quella del grande scrittore bellunese?
Buzzati per me è stato da sempre fra gli autori più amati, anche per le sue immagini, i suoi disegni. Fra l’altro aveva realizzato un poema a fumetti alla fine degli anni 60, io ero giovane, e mi aveva molto influenzato. L’idea che un grande scrittore facesse un lavoro del genere era una prova in più del fatto che il fumetto fosse una cosa seria. Il film dell’invasione degli orsi è nato quando si è aperta con la mia produttrice la possibilità di realizzare un lungometraggio: ero stupito che nessuno avesse mai fatto un’opera del genere con il testo di Buzzati, che sembrava avere tutti gli ingredienti necessari.
Poi durante la lavorazione in realtà mi sono reso conto che quando devi trasformare un’opera letteraria in linguaggio cinematografico ti trovi di fronte vari problemi. Ad esempio, nel testo originale non c’erano personaggi femminili, ne abbiamo aggiunto noi uno. O erano presenti incongruenze che nel linguaggio letterario funzionavano ma al cinema no. Abbiamo creato anche una voce esterna. Però sono stato attentissimo a non tradire l’idea di Buzzati. Diciamo che l’ho tradito cercando di essergli fedele.
Gli anni 70, Re nudo, Gong, Linus, Oreste del Buono. Che ricordi ha di quegli esordi, e di quel clima culturale?
Io ho passato quel periodo cercando di pubblicare, di vivere di questo lavoro. La lotta per la sopravvivenza era quotidiana, non avevo mai soldi, uno degli obiettivi che mi ponevo era di mangiare qualcosa. È stata una bella gavetta. Cercavo di rimanere più fedele possibile al mio mondo. All’epoca non esistevano scuole del fumetto, ognuno si inventava il proprio mondo, il proprio metodo. Di sicuro però eravamo molti di meno rispetto ad adesso, e questo poteva rappresentare un vantaggio. E poi c’erano le riviste, e quindi la possibilità di parlare direttamente con il pubblico, e anche di viverci, se pagavano.
Quali erano le sue fonti di ispirazione, o i suoi maestri all’inizio della sua carriera?
C’erano innanzitutto i grandi maestri del Corriere dei Piccoli, di Linus. Io sono cresciuto con l’idea che bisognasse creare un mondo personale. Poi ho incontrato la grande scuola sudamericana, Renato Calligaro, che viveva ad Udine, con cui mi sono confrontato molto, Muñoz, Breccia e molti altri. Mi sono indirizzato verso un certo tipo di fumetto, più impegnato graficamente, cercando di raccontare le emozioni, un approccio più espressionista, un po’ lontano dal campo satirico. Cercando una sorta di profondità di contenuti ma anche di intensità.
Il suo rapporto con la letteratura: dalle collaborazioni con Claudio Piersanti a Jekill e Hyde, fino a I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni. Come si è sviluppato?
Quando ero ragazzo, grazie a Pratt, Battaglia e molti altri, si potevano leggere i grandi classici della letteratura in fumetto. La mia prima prova è stata Huckleberry Finn, è statala mia tesi di laurea, in un certo senso, un classico diventato fumetto. Ricordo di avere realizzato anche un episodio delle memorie di Casanova. Piuttosto che fare un brutto libro personale pensavo fosse meglio rapportarsi con i classici. Tra l’altro ho sempre pensato che il fumetto avesse anche una funzione divulgativa, potesse fare conoscere queste opere ai ragazzi. Il linguaggio del fumetto non è minore. È come quando si porta la letteratura nel cinema. Ha una sua dignità. Forse avevo meno fiducia nelle cose che scrivevo io. Non tutte funzionavano. Fuochi funzionava. Altre volte, c’erano i libri.
Zannoni con il suo libro pieno di animali antropomorfi è stata una rivelazione per il panorama letterario italiano. Com’è stata questa collaborazione?
Il romanzo di Zannoni mi era piaciuto molto, avevo trovato degli echi che mi erano consoni. Poi grazie al successo e ai premi che ha raccolto ho avuto la possibilità di proporre a Sellerio una versione illustrata e l’editore ha accolto l’idea. Con Bernardo si è creato un bel rapporto, un po’ come fra uno zio pazzo e un ragazzino pazzo.
Ha anche trasposto a fumetti un’opera musicale, The Raven, di Lou Reed, che a sua volta è ispirata a Poe.
Lou Reed voleva fare un libro illustrato, aveva già realizzato lo spettacolo con Robert Wilson, ha conosciuto il mio lavoro e gli è piaciuto tanto. A quel punto mi hanno cercato. Era una personalità molto complessa, un vero poeta nevrotico. Con me alla fine è stato estremamente dolce, era molto orgoglioso del nostro libro. Ma non sapevi bene come prenderlo. Anche quando veniva a Parigi c’era sempre una strana tensione. Con i giornalisti poteva essere molto duro. Ha strapazzato due giornalisti qui a Parigi, che ci intervistavano per il fumetto, facevamo un po’ la parte poliziotto buono-poliziotto cattivo.
Ha fatto copertine per riviste famose: Le Monde, New Yorker e molte altre.
Sì, questo poi è un periodo in cui faccio tanti manifesti. Credo di avere toccato tutti i campi. Anche molta pittura ultimamente. La collaborazione con il New Yorker mi ha portato a realizzare 35 copertine, per un disegnatore italiano un record. Avrei potuti lavorare anche molto di più. Ma non vivendo a New York non ho sottomano la vita della rivista. Ho fatto copertine classiche, sull’inizio dell’anno, l’estate, altre su richiesta, ispirate a eventi di cronaca, l’incendio di Los Angeles e così via. In quel caso bisogna essere molto veloci. È stata una grande scuola di professionismo.
Ha anche disegnato il poster della penultima edizione del Trento Filmfestival. A cosa si è ispirato?
Non mi sono fatto mancare il piacere di disegnare una montagna, era un periodo in cui disegnavo continuamente rocce, montagne, e poi avendo fatto il film sugli orsi di Buzzati avevo maturato una certa familiarità con il tema. Mi è venuto abbastanza semplice. Ho fatto una montagna alla mia maniera, un po’ visionaria, una montagna strana, che non esiste nella realtà, una sorta di archetipo.
A questo punto la domanda è d’obbligo: che rapporto ha con le alte quote?
Alla montagna sono molto legato. Da bambino mio padre ci portava molto, aveva fatto la scuola ufficiali in montagna. Noi eravamo di Brescia, d’estate facevamo grandi camminate. Ho sempre amato i boschi, il loro respiro. Mi danno una sensazione di grande energia positiva. Però è anche un mondo che mi ha fatto paura, mi sono perso due o tre volte, facendo grandi camminate, da incosciente. Quindi non ho mai praticato l’alpinismo, ho sempre guardato con rispetto a questo mondo che si innalza nel cielo, visto spesso attraverso gli occhi di Buzzati.
Parigi è la sua città di adozione, ormai. Come ci vive, com’è la sua vita da expat?
Io non sono mai stato sedotto dal fascino di Parigi. Sono venuto soprattutto per il lavoro, all’inizio, poi anche per la famiglia. Qui sono stato accolto molto bene, ho potuto sviluppare progetti che in Italia non erano possibili, c’è un rapporto molto più diretto fra idea e produzione. Mia moglie inoltre ha una galleria d’arte qui. Molto importante. Ma amo tanto l’Italia, d’estate la passo sempre in Toscana.
Se un giovane le dicesse di voler fare il disegnatore di fumetti, in Italia, cosa gli direbbe?
In Italia mi sembra che ci si accontenti un po’ troppo dei primi risultati che arrivano. All’estero ti accorgi che ci sono talenti mostruosi che sono molto seri, professionali. Gli direi di non accontentarsi mai. Di mantenere un rapporto con la realtà italiana ma di vedere anche cosa fanno gli altri della sua generazione, perché all’estero ti accorgi che c’è un livello di professionalità altissimo.
Qui i ragazzi entrano nelle scuole e pensano già da professionisti. In Italia nelle scuole d’arte pensano a creare il proprio mondo poetico, il che va bene, certo, ma poi non hanno le chiavi per riuscire a vivere del proprio lavoro. Chi alla fine ci riesce, passa anche attraverso qualche esperienza all’estero. È una cosa un po’ dura ma deve essere anche il motore che ti porta avanti, altrimenti.
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