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Cultura

Dalle giovani madri che scendevano a valle per allattare i figli della borghesia alle donne dal piede caprino: Daniela Perco e i musei etnografici

Daniela Perco, antropologa e ideatrice del Museo Etnografico Dolomiti riflette sul presente e sul futuro dei musei etnografici: "Nei contesti montani segnati dall'abbandono dei luoghi e dall'invecchiamento della popolazione, i musei etnografici diventano spesso il fulcro di processi partecipativi e inclusivi, creando reti solide e aprendosi a pratiche ecomuseali, con il recupero ad esempio della biodiversità coltivata"

di
Camilla Valletti
23 gennaio | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Antropologa, favolista, ideatrice del Museo Etnografico Dolomiti e di progetti di rete museali in ambito bellunese e dolomitico, Daniela Perco è una studiosa che ha attraversato le fonti orali per ridisegnare le rotte di una migrazione dalle montagne segnata dal lavoro e dalla fame.

 

 

Quale deve essere la vera vocazione di un museo etnografico?

 

A livello nazionale, e la montagna non fa eccezione, i musei etnografici soffrono in questi anni di una forte crisi d'identità e stanno inesorabilmente "evaporando". Ritenuti spesso anacronistici, faticano a trovare una loro collocazione nella società contemporanea. Tuttavia, anche quando risulta improprio chiamarli musei, si configurano, specie in ambito montano, come importanti presidi territoriali. Sono luoghi di aggregazione e di trasmissione del "saper fare" con ritmi lenti, sono spazi in cui la diversità delle forme degli oggetti, la capacità di riutilizzo dei materiali e la peculiarità delle tecniche artigiane offrono spunti interessanti, modelli di resistenza all'omologazione imperante.

 

I musei etnografici che dispongono di qualche risorsa e di personale competente, dovrebbero riuscire, soprattutto attraverso la ricerca e la didattica museale, a fare capire il valore della diversità culturale, la capacità di adattamento che ha sempre segnato il vivere in montagna e che ancora oggi è una delle chiavi per resistere in questi luoghi. Raccontando storie di mobilità maschili e femminili, cercano di mostrare l'importanza dell'incontro e dello scambio e la porosità dei confini. Suggeriscono gli strumenti per leggere le trasformazioni dell'ambiente da un punto di vista antropico. Insomma dovrebbero essere in grado, e questa è la loro vera vocazione, oltre a quella di conservare il patrimonio, di offrire delle chiavi per una migliore comprensione del presente. Nei contesti montani segnati dall'abbandono dei luoghi e dall'invecchiamento della popolazione, i musei etnografici diventano spesso il fulcro di processi partecipativi e inclusivi, creando reti solide e aprendosi a pratiche ecomuseali, con il recupero ad esempio della biodiversità "coltivata".

 

La vocazione di un museo etnografico dovrebbe essere anche quella di veicolare informazioni rigorose, che consentano ad esempio di orientarsi in modo critico nella massa di dati proposti dal web sul folklore e sull'immaginario popolare. Purtroppo mancano spesso in questi musei risorse umane competenti.

 

 

 Lei ha studiato le comunità venete che si insediarono in Brasile. Attraverso quali prove e testimonianze è stato possibile?

 

Il mio interesse per le comunità italo-brasiliane del Rio Grande do Sul maturò nel corso delle lezioni di "Storia delle tradizioni popolari" all'Università di Roma La Sapienza. Il prof. Diego Carpitella raccontava spesso la sua esperienza di ricerca in queste aree d'immigrazione italiana. Quindi, dopo essermi laureata con una tesi sulle fiabe del mio territorio (il Feltrino), decisi di verificare se i discendenti degli immigrati veneti avessero conservato un patrimonio favolistico e come questo si fosse trasformato nel tempo. La prima ricerca sul terreno, nel 1977, mi fece toccare con mano l'attaccamento di questi italo-brasiliani nei confronti della patria di origine. Sentir cantare in mezzo alla foresta subtropicale versioni ottocentesche della bandiera dei tre colori o sentir raccontare la fiaba del Drago dalle teste e della Cuzazendre (Cenerentola), usando una koiné linguistica (el talian), fortemente influenzata dai dialetti veneti, mi creava un po' di spaesamento, ma anche grandi emozioni. Nelle ricerche successive l'attenzione si è spostata soprattutto sulle leggende, sulle memorie dell'emigrazione e dei primordi dell'insediamento in terra brasiliana e sulle conoscenze di carattere etnobotanico ed etnozoologico. Ho avuto modo anche di lavorare sugli epistolari, ultimo in ordine di tempo quello di una donna della Val di Zoldo, Maria Favretti, emigrata da sola a 28 anni, che proprio grazie alla sua capacità di scrivere, pur avendo frequentato solo la quinta elementare, divenne maestra in Brasile.

Nova Treviso. Santa Catarina Brasile. La famiglia Stangherlin.

Cantori. La famiglia Stangherlin a Nova Treviso (Santa Catarina), 1985. Foto Francesco De Melis - www.museoetnograficodolomiti.it

Ai tempi di Nuto Revelli erano ancora praticabili la cultura di una memoria recente di origine alpina. Oggi come si può muovere la ricerca etnografica dal momento che i testimoni sono venuti a mancare per ragioni anagrafiche? Su quali altre fonti materiali ci si può muovere?

 

Ho avuto anch'io il privilegio di ascoltare e registrare gli ultimi testimoni di un mondo rurale alpino e prealpino. Nel corso degli anni le ricerche hanno preso altre strade, ma non c'è mai una frattura netta tra passato e presente, la trasmissione dei ricordi continua, i dialetti si parlano ancora, pur trasformandosi, e lo stesso avviene per il patrimonio di saperi tradizionali che spesso affiancano conoscenze tecnologiche avanzate. Faccio due esempi: all'inizio degli anni '80 ho intervistato i pastori e le pastore transumanti dell'Altipiano di Lamon: una vita durissima, specie per le donne, costrette a girovagare per cuocere il cibo e talvolta a partorire nelle stalle. Oggi le cose sono cambiate, ma le greggi continuano a transitare tra la montagna e la pianura, modificando ritmi e tempi in relazione al cambiamento climatico, al traffico, ai pesticidi che avvelenano i campi. La ricerca etnografica prosegue, ascoltando anche la voce dei pastori macedoni, keniani, albanesi e dei giovani pastori italiani che hanno deciso di intraprendere questa professione antica.

L'ultima ricerca promossa dal Museo Etnografico Dolomiti, a cui ho partecipato insieme a Iolanda Da Deppo e Michele Trentini, riguarda le memorie intorno alla tempesta Vaia del 2018. Le interviste e i film hanno consentito di capire oggi qual è il rapporto con i luoghi, con i boschi e con gli alberi, come viene percepito il cambiamento climatico, quali sono le aspirazioni di chi vuole continuare a vivere in montagna e quali le strategie da perseguire.

 

 

Lei ha raccontato quella che è quasi una epopea a bassa intensità: l’emigrazione delle balie da latte dalle montagne. Cosa resta di questa esperienza tutta femminile? Sia da un punto di vista formale, penso all’abbigliamento, sia da quello immaginario?

 

A partire dal primo quarto dell'Ottocento, migliaia di giovani madri, soprattutto dalle aree prealpine, andavano ad allattare dietro compenso i rampolli dell'aristocrazia e della borghesia italiane. Era un fenomeno in larga parte clandestino, che per fortuna cessò nel secondo dopoguerra, grazie anche alla diffusione del latte in polvere. La decisione di emigrare raramente era frutto di una scelta personale della donna, il cui latte costituiva un bene prezioso del quale non poteva disporre liberamente. Erano in genere il marito o i suoceri a imporle una partenza che recava sempre in sé forti lacerazioni a livello psicologico e affettivo, ma che rappresentava un investimento sul piano economico. Non era un lavoro pesante, anche se rischiava di mettere a repentaglio la vita del figlio di pochi mesi e determinava di fatto uno sconvolgimento nell'organizzazione della famiglia. Cosa rimane oggi? In molte famiglie si conserva la memoria di madri, nonne e bisnonne che hanno vissuto queste esperienze sofferte, ma al tempo stesso ricche di opportunità. Sono donne che hanno contribuito con i loro sacrifici a costruire case, a comprare terreni, a far studiare i propri figli, magari continuando a emigrare. Sono donne che hanno potuto allargare i loro orizzonti entrando in stretto contatto con classi sociali diverse, sperimentando modelli di vita inconsueti, viaggiando e imparando l'italiano. Il Museo Etnografico Dolomiti ha un ruolo importante perché racconta una storia che non va dimenticata, sia da parte di chi l'ha subita, sia da parte di chi ne ha beneficiato. L'archivio del Museo conserva le testimonianze orali delle balie che abbiamo intervistato (quasi un centinaio), le moltissime immagini, le corrispondenze epistolari, abiti e ricordi dell' emigrazione, tra cui i gioielli vistosi che facevano parte della loro divisa. Nella sezione dedicata alle balie, una documentazione di particolare interesse è quella riguardante Maria Polesana Canova, balia da latte del regista Luchino Visconti.

 

 

Ha anche studiato il rapporto tra cibo e fatica in montagna. Quali sono le tracce ancora presenti?

 

La fatica per procurarsi il cibo era legata ai declivi molto pronunciati che richiedevano specifiche tecniche agricole, come ad esempio il riporto della terra e del letame e alle difficili condizioni climatiche che riducono il tempo dei cicli produttivi, ma anche a una complessa rete di scambi per disporre di alimenti di prima necessità come il sale e le farine. La fatica era anche quella necessaria per il prelievo di risorse spontanee, animali e vegetali, come le rosette basali primaverili, la cui maturazione scalare in relazione all'altitudine, costringeva a spostamenti verticali piuttosto impegnativi.

Chi risiede stabilmente in montagna oggi, pur non avendo più problemi impellenti di sopravvivenza sul piano alimentare, deve tuttavia fare i conti con l'abbandono dei territori e con il cambiamento climatico: le grandinate, la siccità, le piogge violente e improvvise, insieme all'aumento degli ungulati rendono spesso vani i tentativi di coltivazione, anche negli orti domestici. La notevole disponibilità di selvaggina offre ricche opportunità per le attività venatorie e per i predatori, costringendo gli allevatori a impegnarsi in una difesa faticosa e talvolta inutile del bestiame domestico.


Sezione dedicata alle balie da latte al Museo Etnografico Dolomiti - www.museoetnograficodolomiti.it

 

Infine il grande capitolo delle leggende. Lei ne ha raccolte moltissime. Tra le più note quelle delle anguane. Perché parlano ancora al nostro presente?

 

Le leggende sulle Anguane, Longane, Aganis, Fade, in questi ultimi decenni sono diventate fonte di ispirazione per film, anche horror, pièces teatrali, canzoni, o percorsi in mezzo alla natura.

Le fonti scritte e le testimonianze orali raccolte in molte zone del Veneto, del Trentino e del Friuli, ne rivelano la duplice natura: donne bellissime, vestite di bianco, ma con qualche elemento che ne evidenzia l'alterità, come il piede caprino, oppure donne bruttissime vestite di nero, con i seni pendenti. Hanno voci melodiose che riescono ad attirare gli uomini o urlano così forte da terrorizzarli. Spose e madri esemplari, che mostrano grandi conoscenze e abilità e rapitrici di bambini, talvolta antropofaghe. Lavandaie notturne o scatenatrici di tempeste, come le streghe.

Insomma le Anguane sono creature polimorfe e sfuggenti e proprio par tale motivo riescono ancora oggi ad esercitare un fascino particolare. Il loro forte legame con l'acqua, con il bosco e con il mondo sotterraneo, le rende particolarmente adatte a diventare simboli di un rapporto profondo con la natura.

Graton. Campi e prati. Foto C. Vallazza

Il gratón per il riporto primaverile della terra scivolata verso il basso durante l'inverno. Corte di Livinallongo, anni '80. Foto Celestino Vallazza - www.museoetnograficodolomiti.it

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