Con i piedi nel fango delle alluvioni, con gli occhi su boschi malmessi, frane e persone. Michele Lapini, fotografo che nel dramma cattura una luce di speranza
È uno degli occhi più sensibili nel panorama fotografico italiano. Da qualche anno sta testimoniando i risvolti negativi del riscaldamento globale. Grazie alla fotografia ci ha accompagnati tra i boschi sfibrati da tempeste di vento ed epidemie di coleotteri, montagne che cedono gonfie di acqua, e quartieri annegati in una coltre di fango e melma
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
L’emergenza climatica è ormai sotto gli occhi di tutti. Altrettanto chiara, però, è la difficoltà a raccontarla. Se, infatti, la comunità scientifica è da anni compatta nel metterci in guardia sulla correlazione tra i gas serra emessi in atmosfera dalle attività antropiche e l’aumento delle temperature, risulta altrettanto evidente una dilagante incapacità di rendere questa correlazione socialmente (e, di conseguenza, anche politicamente) digeribile.
Di conseguenza abbiamo un urgente bisogno di bravi divulgatori, capaci di semplificare il linguaggio scientifico per renderlo accessibile a tutti, senza tuttavia eliminarne la complessità. Un compito complesso, tuttavia necessario: come sostiene l’antropologo indiano Amitav Ghosh, infatti, scrittori, fotografi, artisti hanno la possibilità di coinvolgere emotivamente le persone e i cambiamenti migliori possono nascere proprio dalle emozioni.
Qualche ottimo divulgatore su cui contare, per fortuna, c’è già. Tra questi Michele Lapini, a mio parere uno degli occhi più sensibili nel panorama fotografico italiano. Da qualche anno sta testimoniando i risvolti negativi del riscaldamento globale. Grazie alla fotografia ci ha accompagnati tra i boschi sfibrati da tempeste di vento ed epidemie di coleotteri, montagne che cedono gonfie di acqua, e quartieri annegati in una coltre di fango e melma.
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Nei suoi lavori emerge con particolare evidenza il duplice e contrastante rapporto che ci lega alla crisi climatica, di cui siamo carnefici, certo, ma anche vittime. Le traiettorie umane catturate negli scatti di Lapini raccontano il dramma che stiamo vivendo, ma anche una voglia di futuro forte e luminosa che offre una speranza.
Proprio su questo slancio in avanti, unito al sentimento di solidarietà che sorge spontaneo in risposta a problematiche di carattere collettivo, dovremmo ricalibrare la nostra società. Questo ci suggeriscono le fotografie di Michele Lapini che, in seguito all’ennesima alluvione, ha di recente scritto una riflessione importante:
“Trovarsi di fronte decine, centinaia, migliaia di persone che vanno a spalare acqua, fango, merda e vite nei luoghi dove vivono altre persone, sconosciute fino a quel momento, è ogni volta emozionante.
Ogni volta spero che questa attivazione lasci dietro di sé un qualcosa, da cui poter ricostruire almeno in parte le nostre comunità, le relazioni umane, riannodare i fili del tessuto sociale e mettere in pratica uno slogan usato spesso: ‘Nessuno si salva da solo’. Spesso invece non è così. Non lo è neanche dopo che si vedono fotografie che ci scandalizzano, emozionano o sorprendono. Poco dopo l’effetto sparisce e torniamo al punto di partenza.
Cosa possiamo fare affinché questa meravigliosa sensazione di comunità metta radici ogni giorno e non se ne vada via insieme al fango?”
L’esposizione
Fino al primo dicembre, il Cortile Antico del Palazzo del Bo - sede storica dell’Università di Padova - ospita i lavori di Michele Lapini dedicati all’impatto sul territorio della tempesta Vaia e dell’epidemia di bostrico. Un percorso visivo emozionante, nella sua drammaticità, accompagnato da una selezione di frasi di Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano (il primo libro targato L’AltraMontagna). L’iniziativa è finalizzata a supportare la ricerca sul bostrico: con i fondi raccolti verranno finanziate due borse di studio.