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Cultura

"Che senso ha riempire i social di foto che sono tutte uguali? Manca l’educazione alla fotografia". Silvia Camporesi, uno sguardo attento sui paesaggi

Silvia Camporesi, fotografa e artista, o meglio, artista della fotografia, sarà protagonista il 22 settembre di una nuova “escursione d’autore” del ciclo di SuperPark, la proposta del Parco Naturale Adamello Brenta, realizzata assieme a Impact Hub, che unisce l’escursionismo, negli angoli più suggestivi dell’area protetta, all’incontro con protagonisti del mondo della cultura, dell’arte, dell’ambientalismo, della divulgazione scientifica

di
Marco Pontoni
13 settembre | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Silvia Camporesi, fotografa e artista, o meglio, artista della fotografia, sarà protagonista il 22 settembre di una nuova “escursione d’autore” del ciclo di SuperPark, la proposta del Parco Naturale Adamello Brenta, realizzata assieme a Impact Hub, che unisce l’escursionismo, negli angoli più suggestivi dell’area protetta, all’incontro con protagonisti del mondo della cultura, dell’arte, dell’ambientalismo, della divulgazione scientifica.

 

L’escursione, la prima delle cinque previste fra settembre e ottobre, avrà per teatro la Val Algone, ed è realizzata in collaborazione con Garda Dolomiti – Azienda per il Turismo Spa. L’itinerario, ad anello, attraversa pascoli, boschi e malghe, al cospetto delle Dolomiti di Brenta. La meta è Malga Movlina, una delle più panoramiche del Trentino. Per partecipare: prenotazione obbligatoria presso Garda Dolomiti – Azienda per il Turismo S.p.A. Tel. 0464 554444 – www.gardatrentino.it

 

Laureata in filosofia all’università di Bologna, Camporesi, che è ospite per la seconda volta di SuperPark, ha iniziato a fotografare nel 2000, dedicandosi in particolare al paesaggio italiano in tutte le sue accezioni (compresi i paesi abbandonati). Nel 2020 ha partecipato al progetto fotografico “Italia in attesa”, con immagini realizzate durante il primo lockdown. Ha vinto fra gli altri  il premio Cantica21 promosso dal Ministero degli Esteri e dal Ministero della Cultura. Alcune delle sue fotografie fanno parte della collezione Farnesina. Negli ultimi 10 anni il suo focus è interamente dedicato al paesaggio italiano, reinventato al di là di ogni tentazione naturalistica.

 

L’abbiamo intervistata per conoscere meglio il suo lavoro.

 

 

Com’è iniziato il suo cammino nel mondo della fotografia?

 

Mi sono laureata in filosofia a Bologna, ma durante gli anni dell’università avevo iniziato a fotografare. Poi ho usato la filosofia per ampliare le prospettive del mio percorso. La filosofia mi ha aiutata ad avere un metodo di lavoro e di pensiero.

 

 

Parliamo di metodo e di motivazioni. Come si entra in un mondo così selettivo?

 

Ho considerato fin dall’inizio la fotografia artistica una forma di lavoro, con degli orari, una  settimana lavorativa, i necessari momenti di pausa. Ho osservato una disciplina serrata. All’inizio è complicato crederci, soprattutto non avendo fatto studi specifici e non avendo entrature nel mondo dell’arte. C’è voluto tempo perché potessi considerarmi un’artista. Anche quando non avevo mostre, o progetti in corso di realizzazione, ho fatto mio il motto del pittore Apelle: nulla dies sine linea. Non lasciare passare nessun giorno senza tracciare neanche una linea. Il che non significava scattare una foto al giorno, ma mettere un mattoncino di creatività ogni giorno, anche con la lettura di un libro, o la visione di una mostra.

 

 

La letteratura è stata una sua fonte di ispirazione?

 

Sì, uno dei miei primi lavori esplorava la Ophelia di Shakespeare. In generale ho lavorato sulle figure femminili, Virginia Woolf, Simone Weil… Mi chiedevo come rendere un racconto, ad esempio di Oliver Sacks, in una foto, come trasformare delle storie letterarie in un’immagine. Questo iter è poi diventato un workshop in Italia e all’estero, molto apprezzato, sulla fotografia come forma di racconto.

 

 

Ed è diventato anche una delle possibili diramazioni del suo lavoro. Con le case editrici, come Einaudi?

 

Ho fatto diverse copertine di libri per editori italiani importanti. Semplicemente, ho contattato le case editrici e ho iniziato a mandare del materiale. Mi importava soprattutto che le persone conoscessero il mio lavoro, poi se le cose devono accadere accadono. Per anni mi sono fatta una lista di curatori di fotografia, li contattavo e li incontravo, se poi erano interessati a quello che facevo, andavamo avanti. È stato un approccio sistematico, elemento fondamentale per un artista.

 

 

Com’è nato l’interesse per il paesaggio?

 

Fino al 2010 ho usato il paesaggio come sfondo. Ero più concentrata sulle storie da raccontare, perciò avevo bisogno di un personaggio da mettere al centro, con il paesaggio dietro di lui. Nel 2011 però sono stata invitata a realizzare un libro su Venezia. Temevo di cadere nel banale, perciò ho creato con le mie foto una Venezia assolutamente immaginaria, molte foto sono state scattate a Italia in Miniatura di Rimini.  Da lì in poi ho sviluppato il mio approccio peculiare, centrato sul paesaggio senza persone. All’inizio riguardava una città, Venezia, quindi un paesaggio urbano, poi ho capito che potevo disimpegnarmi in toto dalla figura umana, anche in altri contesti. Fino ad allora non consideravo il paesaggio come un soggetto che bastasse a sé stesso. Invece, quando ho abbracciato questa prospettiva, per me è stata una liberazione. Mi ha aperto nuove prospettive. Devo anche dire che è complicato lavorare con le persone. Io sono una solitaria, preferisco rapportarmi ad un paesaggio vuoto di presenze umane. 

 

 

Com’è proseguito il suo lavoro, a questo punto?

 

Ho cominciato a pensare a progetti  “in grande”. Il punto è: più la fotografia diventa “democratica”, facile, poco costosa, alla portata di tutti, più bisogna cimentarsi con progetti impegnativi. Attenzione: la complessità non sta nello scatto ma nel pensiero.

Nel periodo 2013-2015 ho esplorato i luoghi abbandonati d’Italia. Luoghi come Curon Venosta, in Alto Adige, il paese sommerso dalle acque del lago di Resia. È stato un viaggio nella dimensione temporale dell’Italia e al tempo stesso nella dimensione atemporale del sogno. Lì ho capito cosa mi interessa della fotografia. Fermare l’assenza, fermare qualcosa contraddistinto dall’assenza umana.

Il passaggio successivo è stato il lavoro sui luoghi insoliti, anche lì non c’è mai la figura umana. L’assenza della figura umana, però, non cancella la presenza di quello che l’uomo ha creato.

 

 

Come ha scelto questi luoghi?

 

Appartenevano al paesaggio italiano. Volevo luoghi che potessi frequentare più volte, e sui quali potessi documentarmi, leggendo, approfondendo la loro conoscenza. Adesso l’interesse si sta spostando sul passaggio successivo: cosa succede a un luogo abbandonato se io smetto di considerarlo un luogo triste? Da un luogo che ho lasciato nelle mani della natura può emergere una nuova bellezza. È il concetto di re-wilderness. La natura torna ad impossessarsi dei luoghi che l’uomo ha abbandonato.

 

 

Quali legami ha sviluppati con il Trentino?

 

Oltre a SuperPark i legami sono molti. Ho lavorato con la Galleria civica di Trento, con l’Ordine degli Architetti di Trento e con l’Università. In questa fase sto cercando di individuare dei luoghi. Non devono essere necessariamente i più belli che il territorio può offrire. Ad esempio: il lago di Bulicante, a Roma, che si è formato nella costruzione di un parcheggio multipiano. Durante gli scavi è emersa una falda, che ha creato un lago, diventato nel tempo una oasi naturale. Sullo sfondo c’è il parcheggio, ovviamente. Ecco un esempio di come la natura agisce sull’ambiente, anche sulle cose create dall’uomo. La natura riesce spesso a gestire persino le catastrofi. Sull’asfalto crescono le piante. Nella passeggiata che farò in Trentino parlerò di come si può guardare a un paesaggio, di come il paesaggio riflette quello che cerchiamo quando usciamo di casa. Forse anche di iperturismo, nelle sue relazioni con la fotografia.  Di come fotografia dei luoghi, condivisione dell’immagine, anche sui social, e iper-presenza umana siano fattori intrecciati fra loro. 

 

 

Visto che in un certo senso oggi siamo tutti fotografi, quali sono le domande che dovremmo porci quando scattiamo?

 

Innanzitutto: perché fotografare? Oggi parliamo di ecologia della fotografia. Nel passato analogico la foto, che veniva sviluppata da uno studio, aveva un costo, pertanto la moderazione nello scatto era imposta dal prezzo. Oggi fotografare sembra un’attività a costo zero, anche se non è vero, i server assorbono molta energia, ad esempio. In ogni modo, il costo ridotto non autorizza a sommergere il mondo e gli hard disk di fotografie. Ogni fotografia deve essere un atto consapevole. Che senso ha riempire i social di foto di luoghi che sono tutte uguali?

 

 

Anche se non pratica la fotografia di reportage, ha lavorato in alcune situazioni legate alla cronaca, come l’alluvione di Forlì?

 

Essendo la mia città l’alluvione è una vicenda in cui mi sono ritrovata anche se non ho subito dei danni. Mi sono chiesta se dovevo fotografarla o no. Ma ho riflettuto sul fatto che l’alluvione era anche un problema di paesaggio. Per un mese tutti i giorni sono uscita per fotografare. Poi il lavoro si è esteso a una ricerca sulle frane, oltre 80.000, a causa di un concorso del Ministero. Abbiamo  lavorato per 6 mesi, è stato molto difficile raggiungere i luoghi, fotografarli.

Lì ho capito l’importanza civile della fotografia, fatta con gli occhi di una persona che aveva uno sguardo artistico. Le riviste hanno iniziato a chiedermi le foto. Quello sguardo “diverso” evidentemente  interessava. 

 

 

Qual è il principale problema della fotografia oggi?

 

Gabriele Basilico andava a fotografare i luoghi che non si erano ancora visti in foto; oggi tutti i luoghi sono stati fotografati innumerevoli volte. Bisogna fare ordine, distinguere la fotografia autoriale dal flusso di immagini, quello che scorre incessante sul web dal processo artistico.

In più la fotografia è ancora considerata un’attività utilitaristica, al servizio di altro: la cronaca, i matrimoni, il marketing. Manca anche l’educazione alla fotografia. Recentemente sono stata membro della giuria di un concorso fotografico in Umbria e gran parte delle foto riprendevano la Piana di Castelluccio, durante la fioritura. Tutte molto simili, evidentemente si sta creando un’allarmante uniformità dello sguardo, a causa dei social.

 

 

Ha svolto un lavoro anche durante il lockdown?

 

Si trattava di una committenza del Maxxi. Raccontare il vuoto dei luoghi. Mai stata così a mio agio nel paesaggio, anche se è difficile fotografare con quello stato d’animo, con la consapevolezza di una tragedia in corso. Contemporaneamente ho fatto foto a casa, con le mie figlie, delle attività che facevamo chiuse fra quattro mura perché costretti. Un lavoro molto intenso, ma non le guardo volentieri; sembra siano passati molti anni.

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