C'è bisogno di abitanti, mica di villeggianti
Sandro Campani, autore del recentissimo Alzarsi presto. Il libro dei funghi (e di mio fratello), racconta la sua bassa montagna e le sue valli “da poco”.
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Scrivi di una montagna in ombra, negletta e dimenticata dall’attenzione turistica per poi essere recuperata nel tempo del Covid e subito dopo, ancora, abbandonata. Perché queste terre sono attraversate da tanta ambivalenza?
Dev’essere stata durissima sopportare la chiusura in città, in un condominio. Avere un balcone a malapena per uscire all’aria, sentire all’improvviso il vuoto attorno e il silenzio dove di norma sei abituato a un pieno esagitato, al rumore continuo. Qui dove sto, il vuoto e il silenzio erano gli stessi di sempre; e anche se avrei potuto uscire di casa a piedi e camminare per giorni evitando le poche strade asfaltate, restavo chiuso in casa per una specie di solidarietà, di blocco, di senso di colpa. In quel periodo, tanti che hanno la seconda casa in montagna ne approfittavano per scappare su, avere spazio, avere aria (e i delatori spiavano, dalle loro finestre, se vedevano aprirsene una che da anni era chiusa, avvertendo i carabinieri).
Qualcuno si è reso conto di cosa vuol dire avere dei campi e dei boschi intorno a casa. Ci sono persone che conosco che, pur essendo di pianura, da quel momento non hanno più rinunciato a scappare su tutte le volte che possono. Ovvio che passarci i fine settimana è diverso che viverci. Come dice il mio amico Emiliano, “C’è bisogno di abitanti, mica di villeggianti”.
Queste terre sono scomode, per la vita che si è abituati a fare adesso. Se vuoi lavorare, nella maggior parte dei casi devi fare il pendolare (soprattutto verso la zona delle ceramiche) e aggiungere alle tue ore di lavoro, che già ti mangiano l’esistenza, l’ora e mezzo se va bene, se non due, che ogni giorno, andata e ritorno, passi in macchina, bestemmiando in coda.
È una montagna che non ha attrattive turistiche importanti (e forse è un bene); c’è la villeggiatura delle seconde case: non crea un indotto stabile, e comunque il lavoro non può essere sostituito in blocco dal turismo, come se ogni valle potesse trasformarsi in un parco a tema a uso e consumo dei turisti.
I mestieri, l'economia interna, la sussistenza. Come vedi il futuro di queste attività? Come descrivi in modo efficace anche i raccoglitori di funghi, a causa della siccità, guardano a terreni di caccia europei. Queste aperture dettate dalla necessità non potrebbero spingere verso il recupero di certe professioni?
Io non mi sento in diritto di esprimermi su questo. Per lavoro sono andato giù, come si suol dire, e sebbene viva isolato, vivo in una collina sicuramente più abbordabile. E non conosco bene le varie situazioni.
Ragazzi che con grande impegno si inventano lavori per poter star su ci sono. I miei fratelli l’hanno fatto. Ma sinceramente non so se questo potrà mai essere altro che un ritorno di nicchia.
Portare il lavoro su, in anni passati, ha significato costruire zone artigianali o industriali dove era meglio non costruire niente, o accanirsi su impianti sciistici in posti dove la neve non verrà mai più, e si spreca acqua sempre più preziosa per produrla. Bisognerebbe vedere come sarà il mondo fra cent’anni. Se saremo ancora qui, intendo come specie.
Perché uno scrittore decide di tornare nei luoghi che descrivi? Tu non racconti l’epica del contatto con la natura. Anzi. Il rapporto che intessi ha piuttosto a che fare con tutto quello che è rimasto in potenza. Tuo fratello Pietro è in continuità con l’ambiente mentre tu sembri faticare a ritrovare il passo. Davvero non si può tornare? La seduzione della pianura è più forte?
Il mio sguardo (e lo dimostra il fatto stesso che scrivo) è contaminato dall’estetica; è lo sguardo di chi alle cose non può più stare dentro. Dev’esserne fuori, per guardarle, e cercare di descriverle, portando loro rispetto. Non mi perdonerei mai di usurpare la terra che dovrei dire mia per farne cartolina, bozzetto esotico, manualetto new age per ritrovare se stessi nel foliage.
Detto ciò, per me, e per tanti altri, non è un fatto di seduzione. In base a dove sei cresciuto, hai visioni diverse di quel che significa comodità della vita. Ad esempio, abitare dalle nostre parti significa usare per forza la macchina: per trovare la prima farmacia, o il primo ufficio postale, che è aperto un giorno a settimana. Per andare a prendere il pane.
Andare al cinema, o a un concerto, o semplicemente far vita sociale girando per locali, sono tutte cose a cui a una certa età dai un peso molto alto, e qui non esistono.
Per quanto mi riguarda, negli anni in cui sono sceso non era nemmeno pianura, tecnicamente, piuttosto un fondovalle sgangherato tra i calanchi che, come scherzava un mio cliente, è il primo buco dove i montanari vedono un pochino di pari e dicono “Basta così”. Aveva la dimensione provinciale del paese, una sua comodità, ma mi sentivo già costretto.
La città mi opprime, perché c’è troppo di tutto. Man mano che invecchio, al vuoto assegno un grande valore. Ma so che per tante persone è importante vedere continuamente gente, avere la sensazione di poter cambiare strada, opportunità e frequentazioni in ogni istante. Oltre che dal posto in cui sei cresciuto, dipende anche dalle abitudini che ti si sono incrostate addosso e non riesci più a distinguere dal tuo star bene, dalla tua identità. E, naturalmente, il mio sentire vale quello di un altro.
Parlando con un ragazzo cresciuto nella bassa, una volta, abbiamo capito che io, essendo cresciuto dove son cresciuto, ho bisogno un punto di riferimento che mi chiuda l’orizzonte: mi dà un senso di rassicurazione, di avere un punto fermo al mondo. La pianura, lo spazio indefinito di cui non si vedono i contorni, mi mette angoscia; una paura atavica, come essere in mare aperto e poter essere attaccato da ogni parte, spazzato via. Per lui che è nato e cresciuto in pianura, invece, avere l’orizzonte piatto significa poter veder tramontare il sole fino all’ultimo, sapere che tanti altri nel mondo tutt’attorno condividono quell’arrivederci.
I cani sono una presenza costante in molti romanzi legati alla montagna. Penso all'ultimo Cognetti, a Tesson, a te. Come vedi queste presenze?
Confesso che sono sempre stato, fin da piccolo, uno da gatti. Ci vivo insieme, mi incanto a guardarli per giornate intere, quando posso. Per quanto con i cani abbia sempre avuto familiarità, e un buon rapporto. Erano i cani da cortile, quelli di quando ero bambino e adolescente.
Andando in giro con mio fratello, vedendolo camminare con loro per il bosco secondo quella che è una funzione pratica, lavorativa, (e ogni specifico lavoro crea la sua versione differente dello spazio, il suo gergo, il suo vocabolario) ho potuto guardare i cani come se li guardassi per la prima volta. (Ho cercato di farlo anche con mio fratello, a dire il vero: osservare un uomo sconosciuto, poco più che quarantenne, dedurlo dai gesti, dal modo che ha di camminare, da come tratta la sua macchina, dagli oggetti che si porta dietro).
Li ho guardati nei loro comportamenti diversissimi, nella loro diversa identità, nei loro atteggiamenti anche manipolatori, furbi; il loro carattere, le loro gelosie, le loro gerarchie, il loro modo di muoversi nel bosco, di correre e trotterellare, giocare o lavorare. Il loro rapporto con mio fratello e anche con me, per quel poco che ci sono stato insieme, accolto da loro come uno della banda. La loro intelligenza sopraffina. È un mondo. Spero di essere riuscito a descriverlo con la dovuta cura.