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Cultura

A Parigi con la compagna Picasso successe quello che non doveva accadere. Vita di Ubaldo Oppi, artista dall’impronta nitida e riconoscibile

Centotrentacinque anni fa, il 29 luglio 1889, nasceva Ubaldo Oppi, pittore tra i più significativi della prima metà del secolo scorso e tra i fondatori nel 1922 del gruppo denominato Novecento, di Margherita Sarfatti

di
Silvio Lacasella
29 luglio | 19:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Centotrentacinque anni fa, il 29 luglio 1889, nasceva Ubaldo Oppi, pittore tra i più significativi della prima metà del secolo scorso, anche se, in realtà, a Oppi furono sufficienti un paio di decenni per lasciare nel frastagliato panorama artistico italiano un’impronta nitida e riconoscibile. Anni all’incirca compresi tra il 1910 e il 1932, specificarlo è importante. Tant’è vero che, quasi sempre, i suoi dipinti sono i primi ad essere scelti e riprodotti quando si vuole rievocare, attraverso poche immagini, il clima culturale del tempo in cui egli operò, segnato, come sappiamo, dalle vicende iniziali del Ventennio fascista. Non meno necessario, però - ora che lo si può fare - è mettere in evidenza come gli artisti di quel periodo, additati di aver creato una sponda teorica al Fascismo nella sua fase germinante, riuscirono a mantenere un’originalità espressiva che poco si adattava ai proclami retorico/propagandistici di quegli anni. Oppi per primo, ma con lui molti altri, non solo successivamente prese le distanze dalla greve protervia del regime, appena questo mostrò il suo vero volto, ma, dallo stesso Fascismo, furono aspramente criticati, come tutti coloro che si ostinavano a mantenere un’autonomia di giudizio considerata antipatriottica e destabilizzante.  

 

Occorre dire che la “solidità” espressiva di Oppi è andata gradualmente consolidandosi all’interno delle sue tele, dopo un prolungatissimo esordio, passato ad individuare una direzione precisa. Bene l’ha capito Licisco Magagnato quando, introducendo il catalogo della mostra del 1969, allestita nelle sale di Palazzo Chiericati a Vicenza, ha così sintetizzato quel primo periodo: “Non era futurista, non era cubista, non era astrattista; però la cultura viennese della Secessione, lo stesso Picasso del periodo Blu, un certo primitivismo fra Rousseau e Garbari, non erano fenomeni a lui ignoti”. Una sintesi perfetta.

 

Poi, qualcosa inizia a cambiare in Oppi, ma non solo in lui: in molti, infatti, superata l’intensa e stordente stagione delle avanguardie internazionali, iniziarono a riposizionare le loro opere nel solco della grande tradizione figurativa italiana tre-quattrocentesca, rielaborandone i temi e la sintassi espressiva, con caratteri e contributi diversi, però uniti da un sentire comune.

Come sempre avviene, la biografia aiuta a individuare alcuni passaggi decisivi per comprendere ciò che stiamo osservando. Il padre di Oppi lo voleva con sé nel commercio delle scarpe e questo gli permise di viaggiare per l’Europa. Nel 1906 arriva a Vienna e subito si guarda attorno, respirando l’aria della Secessione. Nella capitale asburgica il segno fluttuante e sensuale di Klimt è già molto noto, mentre Schiele, le cui mani sono assai più nodose e tormentate, deve ancora fare la sua prima mostra. Visiterà molti paesi del nord Europa, aggiungendo informazioni visive, per consolidare la severità timbrica già presente nei suoi disegni. Nel 1911 scopre Parigi, vi arriva solo. Cerca di ambientarsi frequentando i pittori italiani, tra questi deve aver di sicuro conosciuto Modigliani, giunto nella capitale francese cinque anni prima, anche lui dalla provincia, ma con motivazioni differenti. Oltretutto, il giovane Oppi, a differenza del livornese, ha i polmoni sani e il fisico da atleta. Non ha certo il fascino del maledetto, semmai la bellezza di una statua classica, tanto che verrà soprannominato Antinoo. Una solidità fisica però, che ancora non compare nei suoi quadri.

 

Il clima che vi trova è inebriante e ricco di sollecitazioni che si riflettono nei lavori di quegli anni, senza stravolgerne l’andatura stilistica. Da un lato i lineamenti e un carattere estremamente deciso, dall’altro l’opera, avvolta in un desiderio di astratta e silenziosa sospensione: “Un’arte che sì parte dal vero, ma lo domina, lo sceglie e lo ordina per creare qualcosa che sia più durevole e consolante della fugace realtà”, scriverà Ugo Ojetti, presentandolo alla Biennale del 1924, quando gli venne assegnata un’intera sala. Episodio che determinò la rottura col gruppo denominato Novecento (formato da Sironi, Funi, Bucci, Dudreville, Malerba, Marussig e Ubaldo Oppi, appunto), sorto poco più di un anno prima grazie a un’intuizione critica di Margherita Sarfatti. Occhio attento e sensibile, per qualche anno influente consigliera e amante di Mussolini, finché, nel 1938, in contrasto con le scelte del Duce, fu costretta a rifugiarsi in Argentina, per rientrare in Italia solo nel 1947, a guerra terminata.

Nella narrazione le date spesso si accavallano. Tornando al soggiorno nella capitale francese del 1911, il ventiduenne Ubaldo Oppi appena giunto bussa alla porta di Gino Severini: “Marinetti mi mandava gli esseri più inverosimili, i meno degni di interesse. Ma una volta mi mandò il giovane pittore Ubaldo Oppi. Era simpatico e intelligente. Giovanissimo, bel ragazzo, non mancava di qualità. Naturalmente fu subito sedotto dalla vita parigina e dal fervore con cui si dipingeva. Una sera feci l’errore di introdurlo alla bella Fernande, che lanciò un attacco al quale il mio giovane amico resistette molto male. Io gli feci ogni sorta di raccomandazioni e di proibizioni, ma successe quel che doveva succedere. Picasso non tardò ad accorgersene e mise alla porta la sua amica”.

In realtà Fernande per Picasso non era solo un’amica incontrata alla fontana dell’acqua davanti al Bateau Lavoir: la loro fu una relazione intensissima, durata otto anni, segnata anche da grandi conflitti e reciproche gelosie. Quella ragazza, dalla voce “incantevole e dagli occhi a mandorla”, era abituata a posare per gli artisti (per Van Dongen in particolare), però solo Picasso la ritrasse circa sessanta volte, dedicandole anche una scultura. 

Fernande è Fernande Olivier, pseudonimo di Amèlie Lang (1881-1966), nata da una relazione extraconiugale e affidata a una zia con la quale entrò in aspro conflitto nel momento in cui questa cercò di unirla in matrimonio con un uomo che lei non amava. Mossa da un senso di ribellione scelse un marito diverso, incontrando però la persona sbagliata, oltre che violenta. Da qui la fuga a Parigi, diciannovenne, il cambio di cognome per cancellare ogni traccia del passato e l’incontro con il mondo dell’arte

 

Vi sarà un secondo soggiorno parigino per Oppi, quello del 1919, al termine di una guerra che lo vide combattere sul Pasubio e sulle Melette dell'Altopiano dei Sette Comuni, tre volte ferito e poi prigioniero nel campo di Mauthausen. Facile immaginare lo stato del suo animo, lontano dall’arte, eppure, riottenuta la libertà, evitò ogni ubriacatura. Proprio in quegli anni Oppi scrisse: “Continuai la mia avventura: vivere e operare in opposizione alle mode correnti, traendo nuova forza e convincimento dall’indifferenza delle formule estetiche in continuo reciproco scavalcamento”. Sia nel primo che nel secondo viaggio, fortissima sarà la nostalgia della sua terra e “quando non ne poté più d’essere, corpo e anima, così spatriato, si rifugiò nel Louvre, davanti ai quadri italiani”.

 

Col rientro in Italia, inizia la fase più densa della sua pittura: fiancheggiando la Metafisica, la Nuova Oggettività, il Neoclassicismo, Valori Plastici porterà a termine i suoi quadri più significativi. Nel Realismo Magico, invece, si immergerà completamente. Interni, paesaggi liguri o dell’amato Cadore; molte le figure, sovente colte di profilo, sia inserite all’interno della composizione per restituire l’identità sociale del tempo, che ritratte al centro del dipinto, tra queste Adele Leone, detta Dehly, con la quale l’artista si sposò nel 1921.

L’indole e il carattere non devono averlo favorito. Forse anche per questo un po’ tutti furono pronti a schierarsi contro di lui quando fu accusato di aver copiato il soggetto di un suo dipinto, Sera romagnola, esposto in una collettiva alla Permanente di Milano nel 1926, da un album fotografico acquistato in Francia. Album esibito come prova da un’associazione artistica fortemente tradizionalista.

Che la fotografia fosse entrata oramai da molti anni negli studi dei pittori, da Degas a Segantini, in quel momento pare non interessasse a nessuno. Il putiferio venne scatenato col solo obiettivo di colpire la popolarità di Oppi, essendo forte il sentimento di acredine nei suoi confronti, nutrito da chi non gli aveva perdonato alcune scelte - a partire dalla famosa Biennale del ’24 - giudicate opportunistiche. Tentò di difendersi rilanciando le parole di Ardengo Soffici, il quale, interpellato per l’occasione, disse: “Se un’opera d’arte è buona, è buona in tutti i casi”.

Anche in questa occasione, Oppi trovò il modo di chiudere da par suo la vicenda. Tanto è vero che, nonostante il quadro fosse già stato venduto a un prezzo particolarmente elevato, fece giungere da Venezia agli organizzatori della mostra questo telegramma: “Prego consiglio direttivo sciogliere assolutamente vendita romagnola stop calunnie saranno facilmente spazzate trucchi adoperati mani occhi innesto modello stop pantografo lanterna bromuro fanno sorridere ossequi stop”.

 

Gli ultimi dieci anni dell’artista, raccontano del suo isolamento. Una sorta di ripensamento mistico della vita, che lo avvicinerà alla pittura religiosa. Molte pale d’altare gli verranno commissionate dopo che, nel 1932, otterrà l’incarico di affrescare la Cappella di San Francesco nella Basilica di Sant’Antonio a Padova (1932). L’impresa più impegnativa, però, sarà quella compiuta all’interno della chiesa di Santa Maria a Bolzano Vicentino (1934-35), dove, ancora una volta, trova il modo di inserire, nello sfondo ma ben visibili, due sue amate montagne, il Pasubio e il Summano: “Bisogna venir qui, nei paesi lontani da ogni tumulto, a trovare una chiesa dove poter richiamare dal cielo i santi e gli angeli”.  Allo scoppio della Seconda Guerra mondiale è nuovamente inviato al fronte con il grado di tenente colonnello degli Alpini, destinato alle truppe in forza a Lussinpiccolo. Un incarico breve poiché dopo poco verrà congedato. Morirà a Vicenza nel 1942.

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