“Tutte le montagne sono impossibili finché un giorno qualcuno le sale e non lo sono più”. Con i ghiacciai venezuelani scompaiono anche importanti storie di alpinismo
E così il primato va al Venezuela: è questa la prima nazione a perdere tutti i suoi ghiacciai. La scomparsa del ghiaccio perenne dai pendii settentrionali del Pico Humboldt, la seconda montagna del paese, ha decretato il triste primato. Cosa perdiamo insieme al ghiaccio che fonde? Acqua, servizi ecosistemici e frammenti di storia e cultura che non torneranno
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
L’ultimo ghiacciaio del Pico Humboldt è scomparso. La minuscola placca di ghiaccio superstite pare un ago di gelo in un pagliaio di rocce aride cotte dal sole tropicale e dilavate da piogge torrenziali. Certamente quel minuscolo lenzuolo di ghiaccio, un tempo chiamato Glaciar La Corona, non è definibile ghiacciaio.
Un ghiacciaio è qualcosa di dinamico, che muove il ghiaccio dalla parte alta - dove la neve si accumula e si trasforma in ghiaccio sotto al suo stesso peso - a quella inferiore, dove invece prevale la fusione. A unire le due anime del ghiacciaio ci deve essere un flusso, un movimento che spacca e deforma il ghiaccio, rendendo queste affascinanti strutture ancor più tormentate e misteriose. Se a causa della temperatura sempre più alta il ghiacciaio non riesce più a produrre nuovo ghiaccio, ecco che pian piano la struttura muore di fame. Si assottiglia, rallenta e infine si blocca, trasformandosi da ghiacciaio a glacionevato. I ghiacciai sono vivi, i glacionevati -un esemplare celebre nel nostro paese è quello del Calderone sul Gran Sasso- sono statici.
Sono considerazioni di questo tipo quelle che hanno portato a declassare l’ultimo ghiacciaio del Pico Humboldt, la seconda cima delle Ande Venezuelane, a glacionevato. Quella minima placca bianca che compare nelle immagini satellitari è morta, non produce nuovo ghiaccio, non si muove ed è inevitabilmente destinata a scomparire nei prossimi anni. Un fossile climatico alle ultime battute della sua esistenza.
Leggendo le tante notizie che sono rimbalzate ovunque su questo evento, mi sono subito ricordato delle belle pagine scritte da Alfonso Vinci, esploratore, alpinista, partigiano, geologo (e chissà quante altre cose). Vinci trascorse in Sudamerica diversi anni. Partì per il continente latino subito dopo la seconda guerra mondiale, spinto dal desiderio di avventura ed esplorazione. Rimase per anni sprofondato nel ventre vegetale della foresta pluviale dove, per racimolare qualche soldo, condusse fortunate campagne geologiche (era laureato in filosofia e geologia). Il più grande giacimento di diamanti di tutto il Sudamerica fu una sua scoperta. Come amava ripetere “non vado in giro per cercare diamanti, ma cerco diamanti per andare in giro”.
Dopo gli anni trascorsi nel fitto della foresta, Alfonso Vinci fu nuovamente attratto dalla montagna. Dico nuovamente perché non era certo nuovo all’alpinismo. Egli aprì infatti alcune vie considerate oggi leggendarie sull’arco alpino. Una su tutte lo spigolo Vinci al Cengalo, nelle sue Alpi Retiche, ai cui piedi nacque nel 1915. Dunque l’occhio di Vinci, abituato a cogliere il filo di una nuova via con pochi sguardi, scorse montagne incredibili tra il fitto della vegetazione sudamericana. Quei picchi erano ammantati da ghiacci perenni benché incastonati a poca distanza dall’equatore. I ghiacciai tropicali sono affascinanti proprio perché sono fuori posto, portano del bianco dove nessuno si aspetterebbe di trovarne.
Nelle pagine di Cordigliera (pubblicato nel 1959), l’esploratore valtellinese ripercorre le sue salite sulle cime ghiacciate del Venezuela, ricordando quei giorni eccezionali e la scoperta di un mondo che, a distanza di settant’anni, è scomparso come neve al sole, è il caso di dirlo. Di quei giorni del 1950, la sua salita più bella e celebre fu senz’altro la prima (e solitaria) ascesa del versante settentrionale del Pico Bolivar (4978 m), la massima elevazione venezuelana. Per vincere il versante Alfonso fece ricorso a tutta la maestria che aveva acquisito sui ghiacciai alpini, districandosi tra crepacci e seracchi che non facevano certo invidia a quelli che aveva percorso sulle Alpi. Fece la salita due volte in pochi giorni perché nessuno aveva creduto alla sua storia. “Quel versante è impossibile” avevano decretato le massime autorità del Club Alpino Venezuelano. “Tutte le montagne sono impossibili finché un giorno qualcuno le sale e non lo sono più”, ripeteva serafico Vinci.
Le avventure di Vinci non potranno essere ripetute, solo lette e ricordate. Quei ghiacciai che tanto lo impressionarono hanno lasciato posto a versanti malconci, pile di detriti instabili pronti a rovinare al primo passaggio. Decenni, o forse secoli, di piogge dovranno riversarsi lassù per pulire le tracce dei ghiacciai e mostrare in superficie la roccia sana. Una montagna diversa per un clima diverso.
Un paese ha perso tutti i suoi ghiacciai. Un paesaggio naturale si è spogliato di uno dei suoi elementi più caratteristici, non è una cosa che succede tutti i giorni. Se ci pensate, mai prima d’ora la nostra specie aveva assistito alla rimozione di una componente fondamentale dei sistemi naturali. Cerchiamo di trarre il massimo insegnamento da tali vicende. I ghiacciai scompaiono e ci lanciano un messaggio, dobbiamo coglierlo. È un atto dovuto per i ghiacciai, per noi e per chi verrà domani, che potrebbe presto dimenticare tutto questo.
Per concludere, ho scelto due passaggi che Alfonso Vinci riportò in Cordigliera. È questo l’omaggio che mi sento di portare ai bei ghiacciai venezuelani scomparsi.
“Calpestai la prima neve, che in quegli ultimi giorni di bel tempo si era andata elevando verso l’ultimo zoccolo roccioso, quando il sole sfrecciando dietro il Bolivar arrivava a colpire la punta estrema del Toro, arrossandola come un incendio. Misi lo zaino, pesante per la macchina da presa, su di una roccia e calzai i ramponi: mordevano bene e scricchiolavano sul ghiaccio vetroso che rinchiudeva minuscoli ciottoli di granito, ma il loro suono mi risvegliò. Fino allora io ero andato dormendo per le montagne, mi ero svegliato dormendo, avevo camminato dormendo e avevo pensato soltanto con una coscienza di sogno all’impresa che mi accingevo a compiere da solo. Il mio autentico risveglio fu di paura. La montagna era là sopra di me come una qualunque montagna con tutti i suoi pericoli, aumentati dall’assoluta solitudine e dall’ignoto, e non aveva niente di umano. Ed io in quel momento mi sentii troppo umano”.
“I ghiacciai andini del Venezuela non sono del tipo alpino, di valle, ma piuttosto del pirenaico, di quelli che si possono chiamare ghiacciai sospesi, adatti a montagne prive di altipiani interni, e ripide direttamente fin sotto al limite delle nevi perenni, dove le calotte glaciali si sciolgono bruscamente, presentando alti zoccoli verticali che scaricano annualmente grandi fette di ghiaccio come frane tagliate dal coltello del calore”.