Una pista da sci su tre interferisce direttamente con un "rifugio climatico" delle specie d'alta quota
Le Alpi si trovano al centro di un nuovo allarme lanciato da uno studio condotto dall’Università degli Studi di Milano e dalla Lipu, che evidenzia come le piste da sci stiano erodendo i “rifugi climatici” delle specie d’alta quota, aree cruciali per la sopravvivenza di uccelli e altre forme di vita sensibili ai cambiamenti climatici. Questo fenomeno, aggravato dal riscaldamento globale, rischia di mettere a repentaglio la biodiversità e la funzionalità degli ecosistemi alpini
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Le Alpi si trovano al centro di un nuovo allarme lanciato da uno studio condotto dall’Università degli Studi di Milano e dalla Lipu, pubblicato recentemente sulla rivista Biological Conservation. La ricerca evidenzia come le piste da sci stiano erodendo i “rifugi climatici” delle specie d’alta quota, aree cruciali per la sopravvivenza di uccelli e altre forme di vita sensibili ai cambiamenti climatici. Questo fenomeno, aggravato dal riscaldamento globale, rischia di mettere a repentaglio la biodiversità e la funzionalità degli ecosistemi alpini.
I rifugi climatici sono zone che, per la loro particolare configurazione ambientale e climatica, offrono condizioni favorevoli alla sopravvivenza di specie minacciate dai cambiamenti globali. Uccelli come la pernice bianca e il fringuello alpino, simboli della fauna d’alta quota, dipendono da questi habitat per vivere e riprodursi. Tuttavia, il progressivo innalzamento delle temperature costringe queste specie a spostarsi sempre più in alto, trovando rifugio in spazi sempre più limitati.
Attualmente, una pista da sci su tre interferisce direttamente con un rifugio climatico. Secondo lo studio, questa pressione è destinata a crescere: si stima che entro il 2070, fino al 72% della superficie idonea ai rifugi climatici potrebbe essere sovrapposta ad aree adatte alla costruzione di piste da sci. Questo scenario non solo compromette la sopravvivenza di molte specie, ma anche l’integrità degli ecosistemi montani, già messi a dura prova dai cambiamenti climatici e dallo sfruttamento antropico.
Il riscaldamento globale impone un cambiamento anche agli impianti sciistici. In molte località di media quota, il calore crescente rende impossibile l’utilizzo di neve artificiale, spingendo i comprensori a salire di altitudine. Questa migrazione verso l’alto, però, entra in conflitto diretto con i rifugi climatici, creando un pericoloso circolo vizioso in cui attività economiche e conservazione ambientale si scontrano.
“Non possiamo permetterci di compromettere ulteriormente le nostre montagne,” sottolinea Francesca Roseo, dottoranda presso l’Università degli Studi di Milano e prima autrice dello studio. “Gli ecosistemi montani garantiscono servizi essenziali, come l’approvvigionamento idrico, e sono vitali per la sopravvivenza di molte comunità, anche in pianura. La loro distruzione comporta rischi incalcolabili per la qualità della vita di milioni di persone”.
Lo studio suggerisce che la protezione degli ecosistemi montani richieda non solo maggiori sforzi di conservazione, ma anche un ripensamento delle strategie di sviluppo economico in montagna. “È fondamentale valutare misure di gestione che garantiscano la tutela della biodiversità,” afferma Claudio Celada, Direttore Conservazione di Lipu-BirdLife Italia.
Gli esperti insistono sulla necessità di soluzioni innovative che riducano l’impatto ambientale delle attività umane. “Con le conoscenze scientifiche attuali e l’ingegno umano, possiamo mantenere l’economia di valle senza compromettere gli ecosistemi montani - aggiunge Roseo -. In totale, le piste da sci da discesa coprono circa 500.000 ettari nelle Alpi e si sovrappongono spesso ai rifugi climatici – luoghi che rimarranno idonei nelle condizioni attuali e future per ospitare specie d’alta quota. La creazione di piste negli anni ha contribuito alla perdita, degrado e frammentazione degli habitat, situazione che potrebbe peggiorare in futuro".
La ricercatrice, a supporto del ragionamento, cita la regola dei 100 giorni di Bürki, che suppone che “una stazione sciistica può essere considerata affidabile dal punto di vista della neve se, in 7 inverni su 10, è disponibile un manto nevoso sufficiente di almeno 30-50 cm per lo sport sciistico per almeno 100 giorni tra il 1° dicembre e il 15 aprile”. Tuttavia, commenta: "Questa regola non può essere, nel contesto climatico attuale, il pilastro portante dell’economia dello sci invernale, in quanto sull’arco Alpino la superficie coperta dagli impianti di neve artificiale ha supportato il funzionamento del 90% degli impianti sciistici in Italia, il 70% in Austria, il 53% in Svizzera e il 37% Francia, con un cospicuo uso di risorse elettriche e idriche".
Lo studio rappresenta un importante campanello d’allarme per amministratori, operatori turistici e società civile. La sfida è chiara: garantire un equilibrio tra lo sviluppo turistico e la conservazione delle risorse naturali, puntando su modelli di gestione sostenibili.