Ecco come leggere correttamente un confronto fotografico glaciologico: necessario per comprendere il nostro impatto sull'ambiente
Anche di fronte a prove sempre più lampanti, lo scetticismo climatico resiste. Perché? La scarsa cultura scientifica gioca un ruolo chiave. Solo attraverso la divulgazione possiamo contrastare la disinformazione. Iniziamo imparando a leggere correttamente un confronto fotografico glaciologico
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di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Questa coppia di fotografie provenienti dalle Svalbard è uno dei confronti fotografici a tema glaciologico più note e diffuse. Ciclicamente ricompare e molto spesso è utilizzata a supporto di iniziative che hanno a che fare con il cambiamento climatico e i ghiacciai.
Ci sono a disposizione centinaia, forse migliaia, di confronti fotografici a tema glaciologico, ma questo è sicuramente tra i più noti ed efficaci. Perché? Le motivazioni sono diverse. Innanzitutto in questa coppia di scatti non compare solamente l’elemento naturale. Non solo ghiaccio, roccia e acqua; ci siamo anche noi. Davanti a quel ghiacciaio il marinaio solitario che si dirige verso la fronte è un po’ l’emblema di tutti noi. In questo confronto c’è il ghiaccio e ci siamo noi, c’è la vittima del cambiamento climatico e il suo artefice/osservatore.
La prospettiva e il contesto geografico di questa particolare località artica rendono poi il confronto particolarmente efficace. Nella foto d’epoca la lingua galleggiante che il ghiacciaio spingeva in mare riempiva l’orizzonte e chiudeva la vista. Nel 1918 il marinaio osservava davanti a sé un muro di ghiaccio alto diversi metri, nel 2002 la lingua galleggiante è completamente sparita e il ghiacciaio si è ritirato fino alla linea di costa, stravolgendo completamente il suo aspetto. Spesso nei confronti fotografici che ritraggono i ghiacciai a cambiare sono piccole porzioni del territorio, qui è invece l’intero paesaggio ad essersi completamente trasformato. Anche questo ha sicuramente contribuito alla fortuna di queste fotografie.
Non è però solamente per l’impatto e l’efficacia di questo confronto che ho deciso di parlarvene. La ragione più forte che mi ha spinto a farlo è il fatto che ad ogni sua pubblicazione compaiono numerosi commenti volti a sminuire -o addirittura negare- l’importanza di quanto ritratto. In particolare una delle reazioni più tipiche è “bè ma è chiaro che i due scatti sono stati presi in stagioni diverse. In inverno nella foto d’epoca e in estate per quella in basso.”.
Quando leggo simili commenti la prima cosa che succede è che mi cadono… le braccia. Succede perché automaticamente penso sia impossibile fraintendere il fatto che entrambe le fotografie siano state scattate in estate. Dopo pochi secondi però ragiono un po’ più lucidamente e inizio a pensare che in effetti non è così scontato interpretare il confronto se si è completamente digiuni di questioni glaciologiche.
Ecco perché ho deciso di raccontare questo confronto in dettaglio, soffermandomi sui vari particolari glaciologici e ambientali che rendono evidente il fatto che il ritiro del ghiacciaio non abbia nulla a che fare con la stagione di scatto delle due fotografie.
Partiamo dal definire il dove e il quando. Il ghiacciaio ritratto è lo Blomstrandbreen, nelle isole Svalbard. Siamo nella parte occidentale di Spitzbergen, la più grande isola dell’arcipelago artico (nonché l’unica a essere abitata). La data dei due scatti è 1918 per quella antica, 2002 per quella moderna. L’autore è Christian Åslund, un fotografo svedese.
Il ghiacciaio Blomstrandbreen nel 1918 aveva una caratteristica particolare, affatto comune per i ghiacciai di montagna come quelli alpini. La sua lingua non terminava sulla terraferma come siamo abituati a osservare in montagna, ma in mare. La colata in arrivo dal bacino di accumulo era così vasta e vigorosa che una volta raggiunto il mare continuava a svilupparsi con una piattaforma galleggiante per centinaia di metri. La parte galleggiante era posta a diretto contatto del corpo glaciale principale, l’unica differenza era che invece di poggiare su terra si sviluppava sul mare grazie alla spinta di galleggiamento a cui è soggetto il ghiaccio. La lingua galleggiante partecipava alla dinamica del ghiacciaio, avanzando e portando giorno dopo giorno nuove tonnellate di ghiaccio in mare.
I ghiacciai che terminano in mare hanno la particolarità di perdere massa non soltanto attraverso la fusione del ghiaccio come succede nei contesti montani, ma anche attraverso il cosiddetto calving, ovvero la produzione di iceberg. Il calving è proprio il fenomeno con cui le lingue galleggianti si frantumano producendo iceberg. Nella foto del 2002 è evidente che il ritiro del ghiacciaio è andato a stravolgere l’intera struttura del ghiacciaio, che ha perso completamente la sua lingua galleggiante. Tra le due foto sono andati perduti oltre due chilometri di ghiaccio. Ora il ghiacciaio termina con una fronte ben poggiata su terraferma, al pari dei ghiacciai montani che ben conosciamo.
Quel muro di ghiaccio verso cui si muove l’imbarcazione non è quindi ghiaccio marino, ma la propaggine del ghiacciaio protesa in mare. Come distinguere il ghiaccio marino dalle piattaforma galleggianti? Dallo spessore. Il ghiaccio marino è prodotto dal congelamento dell’acqua marina superficiale a contatto con aria molto fredda. A congelare è quindi solo la parte più superficiale del mare. Il ghiaccio marino è una lasta piatta che emerge dall’acqua per pochi centimetri. Sappiate che difficilmente il ghiaccio marino supera lo spessore di alcuni metri. Immaginando un ghiaccio marino spesso due metri, la parte galleggiante sarebbe emersa per poco più di 20 cm (di un pezzo di ghiaccio emerge dall’acqua solo un nono del volume a causa della poca differenza di densità tra acqua liquida e ghiaccio solido). È chiaro che il muro di ghiaccio ripreso nella foto è alto svariati metri, a significare che sotto alla superficie del mare il ghiaccio deve svilupparsi per molti metri, sicuramente più di 15-20. Ma un ghiaccio marino così spesso non esiste sul nostro pianeta. Solo i ghiacciai possono produrre spessori di ghiaccio simili. E così possiamo mettere un primo punto: quello è ghiaccio di ghiacciaio, non ghiaccio marino.
La seconda cosa che rimane da affrontare è la data dello scatto. In realtà la questione non sarebbe comunque importante. Abbiamo capito che quello è ghiaccio di ghiacciaio che per definizione non scompare e riappare nel giro di una stagione. Quel muro di ghiaccio nel 1918 si sarebbe trovato in quel punto sia nel cuore dell’estate che nel mezzo dell’inverno. Però credo sia comunque interessante capire perché possiamo comunque sostenere con certezza che entrambe quelle fotografie sono state scattate in estate.
Abbiamo diversi elementi che lo indicano. Il più semplice è il fatto che in entrambe le fotografie manca completamente il ghiaccio marino. Il mare non presenta nemmeno il più minuscolo frammento di ghiaccio marino, l’acqua è libera e sgombra. Nel 1918 certo c’era la lingua del ghiacciaio piazzata in mezzo al mare, ma abbiamo già visto che questo non ha nulla a che fare con il ghiaccio marino. Ghiaccio marino che sarebbe invece stato abbondante se le foto fossero state scattate in inverno. Alle Svalbard il mare è quasi del tutto gelato in inverno, mentre si sgombra dal ghiaccio marino durante l'estate.
Secondo elemento: manca la neve. In entrambe le fotografie c’è solo ghiaccio, di neve nemmeno l’ombra, o quasi. Nella fotografia del 1918 si vede praticamente solo la fronte del ghiacciaio e non è possibile capire se sui versanti delle montagne c'è la neve, ma in alto compaiono due cime che sono completamente sgombre, è facile vederlo. Aguzzando la vista si vede che minuscole macchie di neve sono rimaste su quelle due cime, ben incassate nei canaloni più protetti dal sole. Questo vuol dire che quella è l’ultima neve residua che fonde con maggior fatica. Se ci fosse stata una debole spruzzata distribuita sulle rocce avremmo potuto pensare a una nevicata precoce di fine estate o inizio autunno, ma il fatto di vedere la poca neve annidata nei recessi della montagna è un chiaro segno che ci troviamo in piena stagione estiva. E questo vale anche per la fotografia moderna del 2002. Anche in questo caso la neve residua tradisce con la sua distribuzione estremamente localizzata una data di scatto estiva.
Queste due fotografie non sono un mero confronto visivo. I confronti fotografici glaciologici sono uno dei messaggi più potenti ed efficaci che abbiamo a disposizione per parlare del cambiamento climatico e delle sue conseguenze sugli ambienti naturali. Eppure, nonostante la loro chiarezza, lo scetticismo verso il cambiamento climatico continua a insinuarsi nei dibattiti, nei commenti, nelle chiacchiere che scambiamo quotidianamente. Se questo scetticismo è così diffuso il motivo è uno soltanto: la scarsa cultura scientifica. E di questo non possiamo certo incolpare chi non ha avuto la possibilità di approfondire e studiare il clima, la Terra e gli ambienti naturali. Le radici di questo male andrebbero cercate a monte, dove vengono prese decisioni sull’istruzione, la ricerca e l’importanza della cultura.
In questo contesto diventa quindi chiaro che la divulgazione non è solo importante, ma necessaria. Senza conoscenza non c’è consapevolezza, e senza consapevolezza non può esserci azione. E in un mondo che cambia così rapidamente, restare fermi non è un’opzione percorribile. Ce lo ricordano anche quei due marinai che navigano tranquilli nelle acque della Baia del Re.