Cibo alle volpi nel Parco: “Il cartello informativo? Come non ci fosse”. Cosa fare se non basta la comunicazione? Il caso Nord americano (dove si lavora sull'intelligenza ecologica)
A partire da uno sfogo del Parco Nazionale d'Abruzzo, proponiamo una riflessione sull'educazione alla frequentazione della natura, raccontando come questo tema è stato affrontanto, nel corso dei decenni, oltreoceano, in Nord America
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
In un recente post, il Pnalm (Parco Nazionale d’Abruzzio Lazio e Molise) si è lamentato dell’inutilità di aver dotato delle aree strategiche di ulteriore pannellistica, dati i comportamenti tenuti dagli avventori, molti dei quali hanno deliberatamente disatteso ogni tipo di indicazione. Se da un lato è vero che le precauzioni di base (come non gettare rifiuti a terra) sono patrimonio culturale di tutti (o quasi), dall’altro è vero che ci sono ancora molti argomenti che risultano ostici o sconosciuti anche alle persone più attente.
In questo senso, è emblematico il classico avviso che recita: “Non alimentare la fauna selvatica”. Infatti, se è immediato capire che i rifiuti a terra inquinano, non è altrettanto semplice comprendere la nocività di quello che spesso viene considerato un gesto di amore nei confronti degli animali: nutrirli. Il passaggio mentale da fare è controintuitivo: ciò che è cura per noi è morte per loro.
Le parole del Parco Nazionale d'Abruzzo sono demoralizzanti, e sorge spontanea una domanda: "Cosa possiamo fare, allora?".
Questo stesso interrogativo se lo sono posti, tempo fa, anche i gestori delle aree protette nel continente nordamericano, affrontando situazioni analoghe, e quindi potrebbe essere utile (o interessante) conoscere e analizzare il loro approccio. Prima di farlo, è necessaria però una premessa: bisogna tenere conto delle notevoli differenze che esistono tra il contesto statunitense (o canadese) e quello italiano. Infatti, negli Stati Uniti la natura, fatta di spazi immensi popolati da pericolosi animali selvatici, è vissuta come una vetrina, un museo da visitare con occhio esterno, e dunque è, per certi versi, sconnessa e distaccata dal mondo antropico. L'Italia, d'altro canto, è densamente popolata e i suoi abitanti frequentano un ambiente naturale che loro stessi hanno fortemente modificato. La natura intesa come wilderness da noi praticamente non esiste e quella che ci ostiniamo a chiamare tale è perché ai nostri occhi non presenta segni evidenti della mano dell’uomo come strade o edifici. Nonostante questo, anche in Italia ci sono aree naturali che dovremmo preservare il più possibile, come appunto il Pnalm o anche altri parchi e aree naturali in cui a essere preservata non è solo la natura ma il rapporto che l’uomo ha evoluto con quello specifico territorio da lui abitato.
Per apprendere come si sia sviluppato l’approccio delle istituzioni al turista inconsapevole nei grandi parchi nordamericani bisogna partire da lontano, e in particolare dagli anni tra il 1950 e il 1970, in cui il National Park Service ha visto aumentare il numero dei suoi fruitori di ben cinque volte, passando da oltre i 32 milioni di visitatori all’anno in tutti i parchi nazionali all’inizio degli anni ‘50 ai 200 milioni di visitatori a fine anni ‘70.
Anche se certi numeri possono spaventare, dobbiamo ricordarci ancora una volta che quella del Nord America è una realtà molto diversa dalla nostra. Le attività outdoor esplosero in un boom, complice anche il rapido miglioramento dell’equipaggiamento per le attività all’aperto, si innescò un allarme generale sui problemi di sovraffollamento e danni all’ambiente e sulla necessità di una gestione. Per far fronte ai “nuovi” problemi furono create delle norme ad hoc, tra cui l’imposizione di limiti alle dimensioni dei gruppi e limiti di accesso a determinate aree come ad esempio quelle in cui poter campeggiare.
Inizialmente le prescrizioni furono accolte negativamente dalle persone abituate ad andare in natura padrone delle proprie decisioni, nonostante la cause primarie che diedero vita a questi divieti furono anche, tra le altre, morti di campeggiatori ed escursionisti ad opera ad esempio di orsi non debitamente tenuti a distanza da fonti di cibo facile e associabile all’uomo (vedi caso delle ragazze nel glacier national park, come è cambiato per sempre il National Park Service).
Verso la fine degli anni ‘70 si cominciò a temere che l’attuazione di queste contromisure fossero mal tollerate dai fruitori e che l'educazione e la corretta informazione fosse un approccio di gestione migliore rispetto alla regolamentazione (Bradley 1979; Lucas 1982). E così, nel tempo, molti organi istituzionali, come il National Park Service, lo United States Forest Service e il Bureau of Land Management, fecero rete e collaborarono tra loro alla formazione di personale specializzato che fosse designato all’educazione dei turisti e nel 1987 insieme svilupparono un opuscolo intitolato Leave No Trace Ethics.
Qualche anno dopo, nel 1994, nacque anche la Leave No Trace Organization, un’organizzazione no profit basata proprio su quel movimento spontaneo formatosi in risposta ai danni ecologici causati dalle attività ricreative in natura. L’organizzazione, attiva ancora oggi, lavora per sensibilizzare le persone allo svolgimento consapevole di attività in natura, tramite programmi di educazione, un team di ricerca dedicato ai temi del Lnt, il volontariato e le partnership.
L’etica del Lnt viene solitamente sintetizzata in 7 punti fondamentali: pianificare e prepararsi in anticipo; viaggiare e campeggiare su superfici durevoli; smaltire correttamente i rifiuti; lasciare ciò che si trova; minimizzare l’impatto dei fuochi; rispettare la fauna selvatica e rispettare gli altri visitatori. Sono dei punti apparentemente banali ma che se contestualizzati e declinati a seconda delle situazioni possono rivelarsi più utili di quello che sembra di primo impatto.
Agli albori la terminologia e i messaggi che ne scaturivano erano sviluppati in modo indipendente, sulla base delle osservazioni e dell’esperienza maturata dai singoli ranger e professionisti del settore, a volte risultando incoerenti tra loro. Per esempio per minimizzare l’impatto dei focolari c’era chi suggeriva di ridurre tutto il combustibile a cenere in modo da non lasciare nulla e chi invece suggeriva di lasciarne uno evidente in modo da incoraggiare l’utilizzo sempre dello stesso sito e non andare a rovinare altre aree; o ancora la distanza consigliata da mantenere dai corsi d’acqua per campeggiare poteva variare dai 30 ai 60 metri. Attualmente il team di ricerca del Lnt si occupa di dare informazioni il più possibile basate su evidenze e studi scientifici sempre in continuo aggiornamento.
E’ importante sottolineare l’approccio costante e sistemico che venne attuato, come la creazione e implementazione di una pannellistica apposita o lo svolgimento di programmi educativi dentro e fuori dalle scuole. I principi fondamentali del Leave No Trace si trovavano addirittura nei libri di sport outdoor, ranger, guide ed educatori ambientali in ogni dove nei parchi per fare educazione agli avventori, articoli scientifici, addirittura alcuni marchi di prodotti di equipaggiamento per l’outdoor (come ad esempio The North Face) si occupavano di diffondere a loro volta questa filosofia; fino a quando i 7 principi sono diventati patrimonio culturale di qualunque persona (o quasi) che avesse frequentato i parchi.
Negli ultimi tempi la trasmissione dei principi Lnt ai comuni cittadini si è evoluta verso un approccio “dolce” che si basa su un precise scelte comunicative, dettate da tre punti chiave, che sono: "nessun giudizio", "the why" e "speranza di miglioramento".
Quando parliamo di "nessun giudizio" intendiamo l'approccio che si concentra sull'utilizzare delle affermazioni quanto più possibili oggettive evitando di incolpare la persona con cui ci si sta interfacciando evitando l’uso di termini di valore o giudicanti come "non" o "dovresti". Ad esempio, in caso qualcuno sia stato colto andare fuori sentiero iniziare col dire "Ho notato che alcune persone camminano fuori sentiero" o "Ho notato molta erosione in quest'area". Fare questa dichiarazione oggettiva mantiene la conversazione non conflittuale, necessario per poter approdare al secondo punto fondamentale che è il "The why".
In questo caso ci si riferisce all'importanza di spiegare le implicazioni o le conseguenze di quella determinata azione. Infatti, è fondamentale che le persone capiscano il perché delle indicazioni che ricevono, perchè così diventa più probabile che la metteranno in pratica in futuro. Questa spiegazione dovrebbe concentrarsi sulla risorsa (come alberi, acqua, fauna, fiori, ecc.) e su come l'azione osservata impatta queste risorse naturali. Ad esempio,si potrebbe dire: "Ci sono molte piante in via di estinzione in quest'area che sono facilmente calpestate quando le persone camminano fuori sentiero. Oppure “Poiché ci sono molte persone che visitano quest'area, molte di queste piante e fiori potrebbero facilmente scomparire per sempre se tutti camminassero fuori sentiero". Focalizzarsi sulle conseguenze dell'impatto sul mondo naturale e non necessariamente perché è contro le regole: questo aiuta le persone a comprendere come le loro azioni influenzano il mondo naturale.
Infine, è importante dare spazio alla speranza di miglioramento, ovvero comunicare cosa si può fare per migliorare la situazione. A nessuno piace ricevere critiche, anche se ben intenzionate, senza soluzioni o opportunità di miglioramento. Le conversazioni educative sono le più efficaci per ispirare un cambiamento comportamentale a lungo termine, ma possono essere impegnative a volte. È importante considerare le persone come individui, e questo è davvero difficile quando si tratta con in grandi numeri.
Questi tre punti messi insieme sono indicati come una tecnica di comunicazione ben specifica chiamata “tecnica dell’autorità della risorsa” dove si presuppone che l’autorità, il potere di innescare un cambiamento positivo nel fruitore, sia la risorsa naturale in oggetto in quel momento.
Tuttavia, per completezza, è bene sottolineare come questo approccio faticoso e dispendioso in termini di tempo e risorse, che con tutta probabilità non darà frutti immediati, ha bisogno anche di un enorme e cruciale presupposto: la comprensione di base degli ecosistemi e dei processi che avvengono all'aperto, che viene definita "intelligenza ecologica". Solo così si può far capire le conseguenze delle azioni su ecosistemi e dinamiche ecologiche. Questo grande “ma” andrebbe colmato con un'istruzione di base nelle scienze naturali dai primi anni scolastici che culturalmente a noi italiani manca.
I principi del Leave No Trace non sono immuni da critiche, il nome richiama il concetto del “non lasciare traccia”, quindi l’incontaminato, che sappiamo bene essere utopico sia per le grandi aree wilderness ma soprattutto per l’Italia. Quindi l’idea dovrebbe essere quella di minimizzare per quanto possibile l’impatto delle attività ricreative e riscrivere i principi caso per caso tenendo conto soprattutto del contesto di ogni singola situazione in cui l’uomo è di fatto presente. Un terreno nuovo e una sfida per tutte le istituzioni che si dovranno trovare a regolamentare e investire risorse in questo senso.