Contenuto sponsorizzato
Ambiente

50 sfumature di “wild”: la salvezza dell’Europa non sta nel diventare semplicemente più “selvaggi”

La salvezza dell’Europa (e del mondo) non sta nel diventare semplicemente più “selvaggi” ma più consapevoli e rispettosi delle relazioni con la natura che ci circonda, ovunque

di
Mauro Varotto
21 marzo | 19:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Per i più attenti ieri (20 marzo) non è stato solo il giorno dell’equinozio, e quindi l’inizio della primavera, o la giornata internazionale della felicità (che in Italia è stata associata alla giornata delle Università), ma anche il World Rewilding Day. Ne ha dato ampio risalto il Corriere della Sera in un articolo di Elena Comelli dal titolo molto netto: “Serve il rewilding. Senza insetti e natura il Pianeta muore”, con un’intervista a Frans Schepers, fondatore e direttore esecutivo di Rewilding Europe, una fondazione costituitasi nel 2011 nei Paesi Bassi allo scopo di ricreare “rewilded landscapes” in tutta Europa. Rewilded landscapes: come lo tradurreste in italiano? Forse “paesaggi rinaturalizzati” o “paesaggi selvaggi”? E che paesaggi vi vengono in mente con questa definizione? Penso che ai più l’espressione faccia immaginare parchi, aree protette, luoghi “incontaminati” in cui la presenza umana sia ridotta ai minimi termini… e in effetti se si apre il sito rewildingeurope.com lo slogan che vi accoglie è chiaro: Making Europe a wilder place, “rendere l’Europa un luogo più selvaggio”, con immagini di pellicani, fauna selvatica, cascate circondate da vegetazione rigogliosa in cui l’uomo non compare mai (anche se è pur sempre presente dietro l’obiettivo fotografico, non dimentichiamolo…).

 

Davvero pensiamo che per salvare il pianeta possa bastare una percentuale del 20% di aree selvagge? Davvero il problema degli insetti impollinatori o della biodiversità troverà una soluzione planetaria solamente grazie a una manciata di “riserve indiane” per una natura finalmente liberata dall’uomo distruttore? Davvero possiamo credere che la reintroduzione della fauna selvatica e le foreste vergini riusciranno a sconfiggere il global warming, a compensare gli oltre 50 miliardi di tonnellate di anidride carbonica che ogni anno vengono rilasciate nell’atmosfera dalle attività umane, e principalmente nelle aree urbane del pianeta?

 

Il problema, a ben vedere, sta nelle parole che usiamo, ovvero nel significato spesso semplificato e banalizzato che assumono negli slogan usati per fare breccia nella comunicazione. Significati che diventano stereotipi: prendono una parte per il tutto, si ripetono uguali in ogni contesto, togliendo complessità, e alla fine impoverendo noi e il pianeta. Prendiamo la parola inglese wild,  che come l’italiano “selvaggio” ci riporta ad un immaginario stereotipato di animali in via di estinzione, di aree protette, di wilderness senza uomo: l’enciclopedia Treccani ci ricorda però che la parola selvatico si riferisce più ampiamente “a tutto ciò che cresce in maniera spontanea”, “che nasce, cresce e vegeta senza cure”; allo stesso modo siamo abituati a pensare alla parola Natura con la maiuscola e in termini oppositivi all’umano, ma anche qui l’etimologia ci riporta semplicemente a “ciò che ha in sé il principio della vita”, e dunque “il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate che presentano un ordine e si formano secondo leggi” (ancora Treccani). Com’è accaduto allora che siamo finiti in questo cul de sac interpretativo in cui la natura è contrapposta all’umanità, e il selvatico separato dal domestico? Non si tratta forse dello stesso “peccato originale” – la distinzione cartesiana tra soggetto e oggetto – che ha permesso alla modernità di distruggere ciò che ci circonda come se non ci appartenesse, senza curarsi delle retroazioni con le quali oggi ci ritroviamo a fare pesantemente i conti?

 

L’articolo del Corriere continua così sostenendo che “la sfida della rinaturalizzazione del continente è stata raccolta dall’europarlamento che a fine febbraio ha approvato la nuova Legge sul ripristino della natura, con l’obiettivo di rinaturalizzare almeno il 20% del territorio UE entro il 2030”. L’obiettivo della Nature Restoration Law è in verità ben più ambizioso e ampio, e non riguarda solo il 20% del territorio europeo. È una legge che si propone una serie complessa di azioni finalizzate a rigenerare gli ecosistemi (tutti: forestali, agricoli, urbani, marini, fluviali…) conferendo loro maggiore biodiversità, in applicazione della EU Biodiversity Strategy. È suddivisa al suo interno in 16 target diversi, di cui solo 3 si riferiscono alle aree naturali protette, i restanti 13 hanno a che fare con la dimensione naturale presente negli spazi abitati e lavorati dall’uomo: riguardano il ripristino di insetti impollinatori, la riduzione dei pesticidi in agricoltura, il mantenimento di una percentuale di superfici non produttive nelle aree agricole, la diffusione dell’agricoltura biologica e di tecniche agroecologiche, la gestione forestale sostenibile, l’agroforestazione in aree rurali, la bonifica di suoli contaminati, l’adozione di piani verdi per le città, la pesca sostenibile, il contrasto all’overfishing e al rigetto di specie ittiche sempre più cospicuo ad opera dei grandi pescherecci. Insomma, a ben vedere la legge non si limita ai “paesaggi selvaggi” (sarebbe già di per sé un fallimento!) ma implica una nuova idea di convivenza tra attività umane e biodiversità naturale, esattamente il contrario dell’idea di una natura separata dalla presenza antropica. È un piano che va ben oltre il “rewilding” strictu senso, e non lascia semplicemente alla natura il compito di rigenerarsi (e salvarci), ma affida alla specie umana (natura nella natura) il compito gravoso di rimediare ai danni generati, a partire dai propri luoghi di vita, attraverso una serie di parametri rigorosi da rispettare per le proprie attività economiche.

 

La sfida che ci attende è ben più che salvare l’orso marsicano nel cuore selvaggio dell’Appennino o proteggere borghi immersi nella natura facendone un luogo di promozione di un’economia naturalistica. La sfida è quella di tornare a vedere la natura attorno e dentro l’umano. Associare l’idea di natura solamente a quella di wilderness e del selvaggio, e affidare ad essa il compito di salvare il pianeta, è vedere solo una sfumatura di verde. Ce ne sono moltissime altre, che ci conducono fino a riscoprire il buon selvaggio che è dentro ciascuno di noi. La sfida vera per salvare il pianeta sta soprattutto fuori dalle aree selvagge, e se leggete fino in fondo senza fermarvi alle immagini di copertina e agli slogan, è quello che si afferma anche nel sito di Rewilding Europe: “Il rewilding abbraccia il ruolo delle persone e le loro connessioni culturali ed economiche con il territorio. Si tratta di trovare modi per lavorare e vivere in ecosistemi sani, naturali e vibranti”. Appunto,  cinquanta e forse più sfumature di verde.

SOSTIENICI CON
UNA DONAZIONE
Contenuto sponsorizzato
recenti
Sport
| 22 gennaio | 13:00
Donato al Museo etnografico Dolomiti, è stato esposto dopo un’accurata ripulitura e manutenzione che lo ha portato all'originario splendore
Ambiente
| 22 gennaio | 12:00
Beatrice Citterio, ricercatrice in trasformazioni territoriali alla libera università di Bolzano, è ospite della nuova puntata di Un quarto d'ora per acclimatarsi, il podcast de L'AltraMontagna che approfondisce i problemi ambientali e sociali sperimentati dalle terre alte tramite la voce di chi le vive, le affronta e le studia
Sport
| 22 gennaio | 11:00
Ad imporsi è stata la Svizzera, che annoverava tra le proprie fila anche ex calciatori di assoluto livello come Benaglio, Mehmedi, Chapuisat e Frei, che in finale ha piegato per 8 a 6 la Germana. L'evento si disputa dal 2010, è giunto alla 13esima edizione e richiama un gran pubblico nella città del Canton Grigioni
Contenuto sponsorizzato