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Nonostante le minacce, dopo la marcia Mussolini ottiene la fiducia del Parlamento (a votarla anche De Gasperi)

Il 16 novembre, l’appena incaricato Benito Mussolini tiene il suo primo discorso da presidente del Consiglio, passato alla storia come il “discorso del bivacco”. Fra minacce e rivendicazione della violenza, il capo del fascismo riesce comunque a ottenere la fiducia. A votarla, con qualche riserva sul linguaggio usato, anche il deputato popolare trentino Alcide De Gasperi

Di Davide Leveghi - 13 novembre 2022 - 10:40

Un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell’ultima ora, ha evitato la guerra civile e ha permesso di immettere nelle secche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria” (dal discorso del 16 novembre 1922 di Benito Mussolini)

 

TRENTO. Erano passate quasi tre settimane dal giorno in cui re Vittorio Emanuele III gli aveva assegnato il compito di formare un nuovo governo e Benito Mussolini, forte di questa vittoria, non mancò di ricordarlo ai deputati riuniti nella prima seduta del Parlamento, il 16 novembre 1922. Al ringraziamento al sovrano, al suo ruolo decisivo nell’aver “evitato la guerra civile”, il nuovo presidente del Consiglio affiancò tuttavia un’argomentazione dai toni sinistri, imperniata sulla natura rivoluzionaria della marcia su roma. Ma perché?

 

La storica Giulia Albanese, nel suo La marcia su Roma, lo spiega chiaramente: “La costruzione di un discorso sulla marcia su Roma come elemento di legittimazione del potere politico personale di Mussolini e la definizione di questo avvenimento come «rivoluzionario» conferivano una diversa legittimità al futuro duce e gli davano grandi libertà nei confronti della legalità e del Parlamento”. Il re, insomma, gli aveva affidato il potere con una procedura regolare, ma il governo, rivendicava il “duce”, era nato da una “rivoluzione”, avallata poi dal Parlamento.

 

Nel discorso seguente (analizzato QUI), fra minacce e richieste di pieni poteri in materia di riordino della finanze e riforma dell’amministrazione pubblica, Mussolini avrebbe approfondito questa natura illiberale e antiparlamentare, fondata innanzitutto proprio sulla legittimazione della marcia su Roma come momento decisivo di rottura della storia nazionale. A quelle parole, scrive ancora Albanese, “né il Parlamento né il re ebbero alcunché da ridire. E questa fu la conferma che le dichiarazioni di Mussolini non erano solo parole, ma la prefigurazione di una realtà che aveva buone probabilità di durare nel tempo – come infatti avvenne”.

 

Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto

 

Votata favorevolmente da 306 deputati (con 116 contrari e 7 astenuti), la fiducia ottenuta alla Camera dal nuovo governo dipese grosso modo dalla condivisione da parte di liberali e popolari del programma presentato da Mussolini. Oltre a questi, la sottovalutazione del pericolo fascista – altra faccia della medaglia della paura, sproporzionata, verso il bolscevismo – e il timore di una guerra civile. A creare motivi di disagio, semmai, erano i linguaggi e i metodi del fascismo, sottolineati da diversi deputati poi favorevoli al governo.

 

Tra questi anche il trentino Alcide De Gasperi, membro del Partito popolare e non unico tra i futuri costituenti a votare la fiducia. A nome dei cattolici fu proprio lui a intervenire, sostenendo che la scelta del re di affidare il governo a Mussolini fosse di fatto una costituzionalizzazione del tentato colpo di Stato. Al leader del fascismo, l’esponente popolare riconosceva inoltre “il proposito e la forza di ristabilire la legge e la disciplina nel Paese”. L’appoggio di De Gasperi e del suo partito al nuovo governo a trazione fascista, nondimeno, avveniva nonostante una importante fetta del partito e dei suoi sostenitori fosse stata oggetto delle violenze fasciste, specialmente nelle campagne.

 

Da parte sua, l’opposizione di sinistra sottolineò compattamente che la marcia su Roma fosse stata tutt’altro che una rivoluzione. Repubblicani, socialisti, comunisti, ribadirono più volte il concetto, prefigurando anche degli esiti futuri negativi per i fascisti. Così infatti si espresse il repubblicano Luigi De Andreis: “Il giorno in cui altri più violenti e più potenti avranno una forza maggiore di voi, e vi soverchierà, voi non avrete il diritto di recriminare; perché nessuna idea superiore a quella della pura forza vi ha dato il potere”.

 

Presentatosi al Senato, Mussolini trovò un’assemblea ancor più ben disposta nei suoi confronti, tanto che le sue parole non dovettero essere condite dalle minacce appena sentite alla Camera – va ricordato che il Senato, al tempo, non era espressione delle urne, bensì direttamente nominato dal re. Qui i voti contrari furono solo 19, a fronte di 196 favorevoli. Tra questi anche quello di Luigi Albertini, storico direttore de Il Corriere della Sera, critico verso i metodi illiberali mostrati da Mussolini e dai fascisti.

 

Se fuori dal Parlamento non mancarono le attestazioni di preoccupazione per quanto ventilato da Mussolini, al suo interno, dunque, il sostegno fu corposo. Il 24 novembre, alla richiesta di approvazione dei pieni poteri su riforma della pubblica amministrazione e riordino delle finanze, il governo ottenne ancora una volta la fiducia.

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