Benvenuti nel "Paese della memoria": l'Olocausto e il nazismo nella Germania democratica. Speccher: "E' così forte perché figlia del disastro"
Lo storico e filosofo Tommaso Speccher traccia il travagliato percorso di costruzione dell'identità tedesca rispetto all'Olocausto e alla dittatura nazista, riflettendo sul successo ma anche sui rischi di questa cultura memoriale. Comincia così il ciclo di approfondimenti "Memory 27/1-10/2", dedicato al tema della memoria e alle ricorrenze in ricordo della Shoah e delle vicende dell'Alto Adriatico
TRENTO. “La memoria è proporzionale all'intensità dei fenomeni. La distruzione totale vissuta dalla Germania, con i tedeschi che combatterono fino all'ultimo, fino all'8 maggio del 1945, determina la forza dei processi memoriali successivi”. Quando si parla di memoria e in particolare di quella dell'Olocausto, il caso tedesco viene presentato come esemplare. I meccanismi virtuosi che hanno portato alla memorializzazione di Berlino, dove in ogni angolo si “inciampa” in una targa o un memoriale, non sono però il frutto di un percorso lineare e ineluttabile.
Alla profondità dei traumi subiti dal popolo tedesco corrisponde un vero e proprio travaglio nei processi memoriali, che solo con lo scorrere delle generazioni è riuscito a produrre ciò che ora possiamo ammirare tra le strade e le piazze della Repubblica federale. Le generazioni, dunque, sono le pietre miliari per comprendere l'evoluzione della memoria in Germania.
“Per parlare di memoria in Germania è bene partire da alcune premesse – spiega Tommaso Speccher, storico e filosofo, fondatore di Berlincolor, agenzia culturale con cui fa la guida in alcune delle principali istituzioni museali berlinesi – la memoria è innanzitutto figlia del disastro. L'intensità ne determina la forza, e qui se vogliamo troviamo una differenza con l'Italia. Nell'immediato dopoguerra, inoltre, la Germania vive 11 processi di Norimberga. Anche in questo caso non esiste un corrispettivo italiano, sebbene Norimberga non abbia risolto tutto. I cosiddetti processi ai ministeri, infatti, finiscono in molti casi nel nulla, trascinandosi fino agli anni 2000. Molti apparati statali procedono così intoccati. Consideriamo che fino al 1992, in ogni Bundesregierung c'è stato almeno un rappresentante politico, in qualsiasi partito, che ha ricoperto una carica in un ministero nazista".
Per arrivare all'attualità, dunque, sono passate 4 generazioni, che rispetto alla questione della memoria del nazismo mantengono atteggiamenti diversificati. “La denazificazione è un processo che si conclude all'inizio degli anni '50 – spiega – la Germania viene divisa nel 1949 e a quel punto si sovrappone la Guerra Fredda che porta a insabbiare i processi, limitati ad alcuni memorabili, ma minimi. Il discorso olocaustico non emerge, pertanto, durante gli anni '50, ma il passato viene in qualche modo represso. Figure che hanno vissuto, lavorato e fatto carriera nel nazismo rimangono saldamente al proprio posto”.
A rompere gli equilibri è il 1968, che dal punto di vista generazionale segna una vera e propria cesura. “Questa logica si rompe nel '68. Si sente il bisogno di parlare da parte dei 'figli della Seconda guerra mondiale', che vanno dai propri genitori e chiedono conto di quale ruolo abbiano avuto. E' un '68 simile a quello italiano, con le manifestazioni di piazza, i movimento extraparlamentari e la violenza. La Raf, corrispettivo tedesco delle Brigate Rosse, basa la propria azione proprio sull'accusa diretta al passato nazifascista. Hanno l'idea di doverlo affrontare, e molti personaggi compromessi con il nazismo vengono colpiti”.
Per diventare colonna portante della cultura tedesca, la memoria deve però attendere gli anni '80. “E' quando si arriva alla terza generazione, quella dei nipoti, che esplode la centralità della memoria dell'Olocausto – spiega Speccher – le due Germanie si riunificano, c'è bisogno di costruire un'identità nazionale unica. La grande memoria nazionale, però, non può essere recuperata e per questo si dà vita a una sorta di 'memoria negativa', in cui si evidenziano i crimini e le responsabilità civili dei tedeschi. È qui che la memoria diventa un culto collettivo, che nasce il mito della Germania come Paese della memoria”.
La memorializzazione dei luoghi pubblici è ciò che ne consegue. “C'è bisogno di una memoria collettiva critica verso sé stessa. Per questo la memoria del nazismo in Germania è frutto di un enorme lavoro di rielaborazione da parte di artisti, storici, filosofi, letterati. I memoriali sono un monito”.
Tutto questo, tuttavia, non è esente da rischi. “I principali rischi sono due – continua – del primo ne parlava il filosofo Karl Jaspers già nell'immediato dopoguerra. Se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole, diceva. L'idea che esista una collettivizzazione della memoria significa che c'è una colpa nazionale. Ma qui si crea un cortocircuito, come fa la colpa a essere nazionale? Non è individuale? I crimini non li compie il singolo? In secondo luogo c'è un aspetto che un monumento come il memoriale della Shoah di Berlino cerca di risolvere. Un omaggio collettivo alle vittime non rischia di essere un'ulteriore appropriazione indebita? Che diritto ha il popolo tedesco oggi, dopo aver compiuto quei crimini nei loro confronti, di appropriarsi anche della memoria degli ebrei? Silenzio e oblio non sarebbero più opportuni?”.
Tra le nuove generazioni, il senso di colpa instillato da questo tipo di memoria collettiva rischia però di creare rigetto. E così avviene anche in quella parte di Paese che fino al 1989 coltivava una solo memoria ufficiale e indiscutibile, quella dell'antifascismo. “C'è stordimento, rispetto a questo tipo di narrazione dell'Olocausto. C'è il rischio di non comprenderne la complessità, ma proprio per questo si cerca di accompagnarla con una formazione storica in grado di approfondire i meccanismi politici che hanno portato alla nascita del nazismo. Nelle scuole e non solo si cerca di stimolare la riflessione sui fenomeni che portarono al successo della dittatura, sulla genesi e la genealogia. Alla memorialistica si prova ad accompagnare la storiografia”.
“Per quanto riguarda le Germanie, nell'Est tutte le narrazioni pubbliche dell'Ovest faticano a essere accettate. I maestri della memoria vengono rifiutati, così come è vero che dentro al rifiuto delle pratiche memorialistiche si trova anche il mancato confronto con la continuità degli apparati dello Stato tra la Germania nazista e la Ddr comunista”.
A incarnare il percorso tutt'altro che lineare nella costruzione della memoria dell'Olocausto e del nazismo in Germania, si può citare il caso di Wannsee. Sulle sponde di questo lago, posto all'angolo più sudoccidentale della capitale, sorge la villa teatro dell'omonima conferenza con cui nel 1942 si sancì ufficialmente l'avvio della “Soluzione finale”, lo sterminio del popolo ebraico. “In una villa costruita nel '14 e mai passata dalle mani di alcun proprietario ebreo, come qualcuno dice erroneamente riproponendo uno stereotipo, nel 1942 si tiene una conferenza organizzata da uno degli astri nascenti del nazismo, Reinard Heydrich. Qui si redige il documento in cui si organizza la deportazione di 11 milioni di ebrei europei verso i campi a Est".
Ma cosa avvenne poi di quel luogo nel secondo dopoguerra? “Per oltre 20 anni la villa viene utilizzata come una casa vacanze per i bambini di Berlino Ovest. Non si pensa a farne un memoriale. Come abbiamo visto, infatti, le prime generazioni non lo fanno e la costruzione di questa cultura della memoria, l'Erinnerungskultur, avviene dopo il 1989. Qui, dal 1992 al 2020 si organizzano 3 grandi mostre, facendo al tempo stesso della villa di Wannsee un centro studi memoriale in cui si dà attenzione al luogo storico e alla decostruzione storica della dittatura nazista”.
Questo articolo inaugura un ciclo di interviste e riflessioni sulla memoria e le ricorrenze che marcano questa parte dell'anno. Memory: 27/1-10/2, rubrica di approfondimento giunta alla sua "seconda edizione" vuole interrogarsi sul senso, le potenzialità e i rischi dell'insistenza sulla memoria nello scenario pubblico. La sua prorompente ascesa, infatti, si è accompagnata alla parallela scomparsa o alla riduzione dello spazio delegato alla Storia, come analisi critica del passato. Memory consiste nel mostrare come le “tessere” della memoria – i ricordi – non coincidano mai perfettamente tra loro.