Silvius Magnago guida di un popolo. 62 anni fa la manifestazione di Castel Firmiano dava avvio alla lotta per l'autonomia dell'Alto Adige
L'11 novembre 1957 si teneva sulla rocca sovrastante Bolzano un raduno dell'Svp per protestare contro il piano edilizio del ministro Togni e contro il mancato rispetto del Patto De Gasperi-Gruber da parte dello Stato italiano. A Castel Firmiano si forgiavano il leader e la strategia della battaglia autonomistica sudtirolese, ma tra la folla serpeggiò lo spettro del terrorismo
TRENTO. Se nella Storia esistono personaggi che segnano a fuoco i destini di un territorio, tra questi non può che essere annoverato Silvius Magnago. Figlio di una coppia mista – il padre era un magistrato d'origine roveretana, la madre era invece originaria di Bregenz, in Vorarlberg – il futuro e longevo Obmann della Volkspartei, dopo aver studiato giurisprudenza a Bologna, fu dapprima soldato in divisa italiana e successivamente, optando per il Reich, inviato in uniforme della Wermacht nella campagna di Russia.
Fu lì, al fronte, che perse una gamba. Slanciato, spigoloso, austero, il giovane Magnago tornava in Alto Adige a guerra finita dedicandosi alla politica e raggiungendo già nel 1948 il ruolo di vicesindaco di Bolzano. Un trampolino di lancio in quel partito, l'Svp, che il grande giornalista trentino Piero Agostini, definiva il “più etnocentrico del mondo”, capace pure di far superare le divisioni a una comunità dilaniata dalle Opzioni, divisa tra la minoranza dei Dableiber e la maggioranza, in gran parte rimasta ma fortemente radicalizzata dalla propaganda nazista, degli Optanten.
Nella campagna elettorale del '48 – anno in cui veniva pubblicato il primo Statuto d'autonomia della regione Trentino-Alto Adige – seduto accanto al Dableiber Friedl Volgger, deportato a Dachau per la sua attività di propaganda contraria alle Opzioni, manifestava già in un comizio le sue capacità di leadership, riunendo dietro a sé, al di là delle differenze ideologiche, una comunità compattata etnicamente: “Vedete? - esordiva – in questo comizio voi ascoltate me che sono stato un optante, che ho combattuto nella Wermacht e che ho perso una gamba in Russia combattendo per la Germania. E fra poco ascolterete Volgger, che invece ha rifiutato l'opzione, che ha lottato contro il Terzo Reich e che è finito in un lager”.
“Non dovete sorprendervi – continuava – questo è il partito. Questa è la Volkspartei. E la Volkspartei vi rappresenta tutti, qualunque sia stato il vostro passato e qualunque sia la vostra condizione attuale”.
L'11 novembre di 62 anni fa Magnago saggiava la forza delle istanze di quella stessa comunità e del partito che unicamente la rappresentava. Giunto da poco alla guida del partito in quella che fu una vera e propria detronizzazione dei “notabili” fondatori del partito – grosso modo Dableiber che venivano considerati troppo morbidi nella loro linea verso Roma – Magnago arringava le 35mila persone accorse alle rovine di Sigmundskron/Castel Firmiano chiedendo l'immediato distacco e il rispetto dell'Accordo di Parigi con cui De Gasperi e Gruber avevano pattuito l'autonomia del Sudtirolo.
Il capoluogo, infatti, aveva smesso per i sudtirolesi di rappresentare la propria città non solo in virtù del cambio ormai attuato da tempo negli equilibri etnici ma pure per la miopia con cui le autorità italiane negarono il diritto di manifestare al partito di raccolta dei sudtirolesi. “Bandito” dal proprio capoluogo per la prima volta durante la campagna elettorale del 1956, il popolo sudtirolese si riuniva sulla rocca sovrastante la città in un clima tale di tensione da non escludere una “discesa” furiosa verso il centro.
Ma la discesa non avvenne e la compostezza fu mantenuta proprio grazie a Magnago, che promise al questore di Bolzano di mantenere la manifestazione nella sua sede. E così fu, nonostante l'Alto Adige fosse divenuto ormai scenario di un'escalation sancita dallo scoppio delle prime bombe e da uno scontro propagandistico feroce - con in prima linea i giornali Alto Adige e Dolomiten.
La manifestazione di Castel Firmiano era stata organizzata a seguito dell'annuncio da parte del ministro del Lavoro Giuseppe Togni di un enorme piano di edilizia popolare coinvolgente Bolzano, perciò non solo inverava l'oscura previsione di Michael Gamper sulla 'Marcia della morte' ma dimostrava ulteriormente agli occhi dei sudtirolesi come lo Stato italiano fosse deciso nell'incentivare politiche migratorie in continuità col fascismo – tutte questioni ampiamente smentite dalla storiografia e d'alimento a miti vittimistici (qui e qui gli articoli).
“Sollecitiamo lo Stato all'adempimento degli impegni assunti – esortava l'annuncio della manifestazione apparso sul quotidiano Dolomiten – fra i quali ci sono soprattutto: la concessione di una autentica autonomia al Sudtirolo come Regione a sé, e l'assicurazione dell'incondizionata precedenza nella assegnazione dei posti di lavoro e degli alloggi alla popolazione locale. Il popolo sudtirolese – concludeva infine – si appella all'Austria perché si impegni con ogni forza e con tutti i mezzi per un rapido accoglimento di queste richieste”.
La nuova dirigenza del partito, infatti, aveva già cominciato a contare sulla riconquistata indipendenza austriaca (nel 1955, qui l'articolo), necessaria per internazionalizzare la questione altoatesina. Di mano in mano, tra i cartelli inneggianti a Austria e Germania e gli striscioni con lo slogan “Los von Trient” ('Via da Trento') passavano tra le migliaia di persone assiepate sul prato di Castel Firmiano pure i volantini del Befraiungsausschus Südtirol, facendo di quella manifestazione il prodromo sia della battaglia legale per l'autonomia sia di quella extra-legale (qui l'articolo).
Lì si forgiava la carismatica figura di un leader che avrebbe svolto un ruolo decisivo nel plasmare l'Alto Adige contemporaneo, facendo della lotta per l'autonomia una battaglia di vita e di difesa di quella minoranza di 200mila persone di fronte a 60 milioni di italiani. Un uomo che fece della mediazione la sua forza così come dell'opportunismo con cui riuscì ad ottenere il massimo possibile da uno Stato mostratosi in Alto Adige incoerente e debole. Non a caso quando nel 1969 l'accordo tra Aldo Moro e Kurt Waldheim chiuse la questione del Pacchetto per l'autonomia, Magnago fu l'abile guida della sua (risicata) approvazione nel Congresso del partito. Il segreto della sua vittoria stava anche nella fortunata formula con cui aveva presentato l'accordo ai congressisti spaventati: “Il sì eterno non esiste”. A seguire la storia successiva di questa provincia incastonata nella Alpi italiane per una bizza della Storia, si direbbe che l'insegnamento è stato appreso alla grande.