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Bombe, morti, abusi, doppio gioco e propaganda. La ''strategia della tensione'' fa ''le prove'' in Alto Adige con il BAS

Terza puntata della serie di articoli dal titolo “Alto Adige, un laboratorio d’Italia”. La storia del terrorismo altoatesino, cominciata nel 1956 e conclusa dopo una breve pausa nei ’70 con l’ultimo attentato del 1988, coincide con la storia del sistema repressivo messo in atto dallo Stato e poi riadattato al Paese durante la fase della cosiddetta ''strategia della tensione'' 

Di Davide Leveghi (nato a Trento nel 1993, diplomato al liceo classico Prati e laureato in storia all'università di Bologna. Specializzato in storia contemporanea) - 26 giugno 2019 - 15:02

TRENTORipercorrere la storia dei nostri corregionali ci permette di fare i conti con il nostro passato (di trentini) così come di penetrare in alcuni decisivi snodi della vicenda novecentesca del nostro paese. La frontiera è lente privilegiata per comprendere la traiettoria intrapresa dall’Italia nel “secolo breve”, luogo dove albe e tramonti delle fasi storiche si palesano con anticipo. “Alto Adige, un laboratorio d’Italia” vuole raccontare per capitoli quattro momenti nodali della storia altoatesina per comprendere l’influenza delle politiche attuate da Roma sul resto del paese. (QUI LA PRIMA PARTE E LA SECONDA PARTE).

 

Capitolo 3: la strategia della tensione

 

Il 12 dicembre si celebra il 50° anniversario della strage di Piazza Fontana, considerata comunemente l’inizio della “stagione della tensione”, un tragico periodo della storia patria costellato da bombe sui treni e nelle piazze, nonché dall’arroventato clima politico e sociale. Ma se è vero che quell’evento segnò la salita alla ribalta nazionale dell’oscuro apparato repressivo protagonista dei sanguinosi attentati, già tempo prima questi aveva avuto modo di testare tattiche e modalità di controguerriglia nel laboratorio altoatesino, dove le lotte per maggior autonomia da Roma e Trento videro l’apparizione di sigle poco inclini al dialogo e desiderose di passare ai fatti.

 

La storia del terrorismo altoatesino, cominciata nel 1956 e conclusa dopo una breve pausa nei ’70 con l’ultimo attentato del 1988, non può prescindere né dalla pregressa vicenda del territorio atesino né dall’inserimento nelle dinamiche nazionali e internazionali dell’epoca. Siamo nel 1957 quando dalla rocca di Castelfirmiano, dominante Bolzano, davanti a più di 35mila persone l’astro nascente della Südtiroler Volkspartei Silvius Magnago lanciò l’anatema del “Los von Trient”, giudicando disattese tutte le promesse di autonomia prospettate dall’accordo De Gasperi-Gruber del 1947. Tra la folla apparve un volantino che invitava all’azione attraverso mezzi illegali, firmato BAS, acronimo di Befraiungsauschuss Südtirol, Comitato di liberazione del Sudtirolo.

 

I riferimenti alle lotte di liberazione di Cipro o dell’Algeria pretendevano inserire il BAS in quell’universo in rivolta contro il colonialismo che stava infiammando le coste mediterranee e non solo. D’altronde l’Italia stessa dimostrava d’aver tradito i suoi principi risorgimentali annettendosi dopo la Grande Guerra questo territorio al tempo pressoché privo di italiani. In un territorio di frontiera al confine con un’Austria rinata indipendente e libera solo nel 1955, non lontana dalla cortina di ferro, dove lo scontro ideologico era marginale a fronte del contrasto etnico, immobilismo e miopia delle istituzioni nazionali e regionali contribuirono ad innalzare il termometro della tensione tra i gruppi linguistici, spingendo i più oltranzisti tra i sostenitori del diritto all’autodecisione del Sudtirolo ad imbracciare le armi.

 

La politica sudtirolese viveva una fase di radicali cambiamenti. Il notabilato protagonista nel dopoguerra della rinascita politica della minoranza tedesca venne sostituito da giovani e arrembanti “falchi”, stufi dei compromessi con Roma e della stagnazione dei negoziati sulle competenze tra regione e province. La recuperata libertà d’azione da parte di Vienna sostenne la carica con cui si affrontò lo Stato italiano, a livello istituzionale come nel supporto malcelato ai terroristi sudtirolesi, liberi in caso di necessità di rifornirsi e ripararsi al di là del Brennero. La Guerra Fredda aveva spaccato l’Europa in due, il “pericolo rosso” incombeva sul “mondo libero”.

 

La prima bomba scoppiava in Alto Adige nel settembre 1956. Il clamore fu superiore ai danni, gli arresti seguirono rapidamente gli scoppi. L’attività cospirativa, però, proseguiva; da Innsbruck, centrale ideologica dell’irredentismo pantirolese, organizzazioni come il Bergisel-Bund, sempre più influente presso il governo di Vienna, cominciarono a sostenere organizzativamente e finanziariamente i circoli eversivi al di là del Brennero. Il BAS, nato per iniziativa del commerciante di Frangarto Sepp Kerschbaumer, definiva capillarmente il proprio organigramma reclutando più di 200 Aktivisten. Da Castelfirmiano in poi gli attentati colpirono ogni simbolo della presenza italiana in Sudtirolo, dai tralicci dell’energia elettrica ai monumenti fascisti, dalla tomba di Tolomei ai cantieri delle case popolari. Sarà però nel 1961 che questa sigla firmerà il colpo più grande, in quella notte tra l’11 e il 12 giugno passata alla storia come Feuernacht, la “Notte dei fuochi”: mentre sulle montagne ardevano i falò in onore del Sacro Cuore, una sessantina di tralicci minati saltarono in aria, provocando panico tra la popolazione. I danni economici furono ingenti, lo choc psicologico durissimo. Contro le intenzioni degli attentatori, lo stradino Giovanni Postal perse la vita dilaniato da una bomba inesplosa.

 

La reazione della autorità nazionali, dopo una prima fase di sbandamento, non tardò a farsi sentire. A seguito di ulteriori esplosioni ai valichi alpini, volte a sabotare l’afflusso turistico estivo verso la penisola, il BAS subì pesanti arresti tra le sue compagini. Kerschbaumer, seguito da numerosi compagni, venne arrestato a metà luglio, altri ripararono oltre confine. Alle frontiere veniva stabilito l’obbligo di visto per i cittadini austriaci, mentre l’Alto Adige era attraversato da una crescente tensione dovuta alla militarizzazione del territorio, alle perquisizioni di massa, ai coprifuoco e ai rastrellamenti. Dalle carceri si denunciavano abusi e maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine e in circostanze sconosciute persero la vita due Aktivisten. A Montassilone, paesino della Val di Tures, i carabinieri furono protagonisti di un brutale rastrellamento in cui i fermati, una quindicina, vennero legati e costretti a entrare nelle fredde acque di un ruscello, minacciati d’essere passati per le armi.

 

Il terrorismo altoatesino subiva a questo punto una decisiva svolta ideologica e tattica. Se fino a quel momento i (seppur discutibili) principi religiosi avevano guidato la lotta di liberazione condotta dal BAS, ammantandola di un velo sacro – tanto che lo stesso Kerschbaumer, sostenendo di non voler far vittime, si era rivolto al vescovo di Bressanone -, dalla sua riorganizzazione in poi le sue fila si riempirono di giovani neonazisti provenienti dalle associazioni studentesche bavaresi e tirolesi. Mentre le centrali ideologiche spingevano all’azione e raccoglievano finanziamenti e armamentario, la manodopera locale mise in atto assalti alle caserme, azioni di guerriglia ed attentati ai treni e alle stazioni. Lo scopo divenne a questo punto fare vittime, tanto che tra il 1965 e il 1967 si registrarono ben 12 morti tra militari, finanzieri e poliziotti.

 

Mentre nei consessi internazionali si discuteva il caso altoatesino e le diplomazie cominciavano l’accidentato percorso dei negoziati, nelle aule dei tribunali, oltre che nei luoghi degli attentati, si giocavano pericolosi scambi di battute. La giustizia italiana così come quella austriaca si dimostrarono essere piuttosto indulgenti nei confronti dei “propri”, fossero i carabinieri accusati di abusi o i terroristi riparati nel Tirolo austriaco per sfuggire all’arresto. Il balletto del controterrorismo prese piede, portando morte e terrore anche al di là del Brennero, dove cellule neofasciste italiane si resero protagoniste di azioni di vera e propria rappresaglia. La compresenza di sigle terroristiche tirolesi e italiane marcherà la seconda fase del terrorismo in Alto Adige a partire dal 1978.

 

È in questo clima infuocato che la lotta ai Freheitskämpfer (romanticamente definiti “combattenti per la libertà”) assunse i tratti di una “prova generale” della “strategia della tensione”. Misteriosi episodi di artificieri dell’esercito fermati mentre minavano tralicci (e poi rilasciati), una martellante propaganda tesa a “imbarbarire” un nemico etnico definito razzista ed arretrato, la dimostrazione di forza delle migliaia di soldati, carabinieri e poliziotti giunti in Alto Adige, gli abusi verso la popolazione tedesca, la presenza di cellule neofasciste collegate alla rete Nato Stay Behind, l’utilizzo dimostrato di agenti infiltrati (come nel caso dell’omicidio di Amplatz del 1964) o l’uso degli attentati per alzare il livello della tensione provocando la reazione delle forze di sicurezza (vedi il fallito attentato al Brenner Express sempre del 1964), furono inquietanti avvisaglie di ciò che sarebbe avvenuto a livello nazionale di lì a breve.

 

Non è un caso che ad operare in quel tragico periodo in Alto Adige ci fossero alcune figure poi risultate centrali nella “strategia della tensione”. Nella relazione al Senato dell’onorevole Marco Boato dell’ottobre 1991 per la Commissione stragi, la risposta dello Stato italiano al terrorismo altoatesino venne definita “deviata e deviante”, servendo “da sperimentazione pratica di una sorta di laboratorio della strategia della tensione, della provocazione e della strage”. Accantonato il pericolo secessionista, testate le tattiche di escalation in una “guerra sporca”, l’apparato repressivo volgeva la testa verso un nemico mortale: il comunismo.

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