Contenuto sponsorizzato

A destra Trump, Orbàn, Le Pen: e a sinistra? “Mancano leader e un messaggio unitario: i voti delle minoranze non bastano, non si vince senza parlare di crescita economica”

Il recente successo di Trump e dei Repubblicani negli Stati Uniti ha sancito l’ennesima avanzata negli ultimi anni della destra populista e nazionalista nel mondo occidentale. E se le destre, tanto negli Usa quanto in Europa, sembrano compattarsi attorno a leader ‘forti’ e condividere una chiara visione del mondo (condivisibile o meno che sia), a sinistra la situazione sembra l’opposto. Da dove partire quindi? Il Dolomiti lo ha chiesto a uno dei maggiori politologi in Italia, il professore Sergio Fabbrini

Foto sullo sfondo Askanews
Foto sullo sfondo Askanews
Di Filippo Schwachtje - 17 novembre 2024 - 10:14

TRENTO. Da una parte una destra populista, nazionalista, guidata da leader forti’ (con tutte le accezioni positive e negative del termine) ma in grado di comunicare efficacemente in particolare a un elettorato che, tradizionalmente, guardava a sinistra. Dall’altra forze liberali e progressiste che su entrambe le sponde dell’Atlantico (con le dovute differenze, ovviamente) si trovano ad affrontare le stesse difficoltà: la mancanza di punti di riferimento carismatici e di un messaggio unitario, in grado di rivolgersi con ugual efficacia alle minoranze etniche, sessuali e religiose e alle ‘maggioranze’ dei ceti medio-bassi, che più di tutti pagano il peso della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. Dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa, in molti si chiedono da dove possano ripartire i Dem per ricostruire un partito che, nel post-Obama, sembra faticare a trovare un leader (e una classe dirigente) con prospettive di medio-lungo periodo. Sfida che, mutatis mutandis, si trovano ad affrontare i ‘colleghi’ nel Vecchio Continente (alle prese, per fermarsi alle sole ultime settimane, con la crisi di governo in Germania), a pochi mesi da una tornata elettorale in Europa che ha visto da una parte la conferma (traballante) della maggioranza Ursula, ma dall’altra una crescita significativa delle forze alla destra del Partito Popolare Europeo. Da dove (ri)partire, quindi? Il Dolomiti lo ha chiesto a Sergio Fabbrini, uno dei maggiori politologi in Italia, già direttore della School of International Studies all’Università di Trento e oggi docente di politica e relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli.

 

Professore, da dove partire per spiegare le difficoltà che la sinistra sembra vivere oggi?

 

Da una quindicina d’anni il mondo occidentale, e non solo, sta registrando una forte ascesa di partiti e movimenti nazionalisti. Il nazionalismo è tornato al centro dei processi politici occidentali almeno dalle elezioni americane del 2016 e dal referendum sulla Brexit nel Regno Unito. Molti studiosi retrodatano però le origini dell’ascesa della destra radicale addirittura nella crisi del processo di globalizzazione. Quel che è certo è che il contesto è chiaro: siamo in un’epoca in cui il nazionalismo di destra è tornato centrale. Negli Stati Uniti abbiamo visto il successo di Trump e del partito Repubblicano, controllato dai ‘Maga’ (i fedelissimi di Trump dal noto slogan utilizzato dal tycoon, Make America Great Again ndr) che hanno conquistato Camera e Senato. D’altra parte va sottolineato che l’ondata di nazionalismo di destra è decisamente meno dirompente di quanto Trump abbia sostenuto: è vero che ha vinto il voto popolare, ma lo scarto di voto con Kamala Harris si assesta sul 2/3%. In altre parole siamo di fronte a un cambiamento con conseguenze potenzialmente di portata storica, ma dovuto tutto sommato a differenze leggere, a livello quantitativo, nell’elettorato.

 

Perché si osserva questa tendenza?

 

Per molto tempo abbiamo parlato di populismo, di movimenti che mettevano in discussione la legittimità delle élite che avevano governato le nostre democrazie nei 10/15 anni precedenti. E la definizione di populismo in questo contesto è centrale e necessaria, ma non sufficiente. Esiste anche un populismo di sinistra, basti pensare a Mélenchon in Francia, con una dimensione fortemente anti-elitaria. Ma questo populismo di cui parliamo ha un progetto chiaro: quello nazionalista di Usa First, Italy First, France First. Si tratta, in altre parole, di un tentativo di mettere in discussione il sistema di interdipendenze costruito nel Secondo Dopoguerra da Degasperi, Schumann, Adenauer in Europa e dai sostenitori del New Deal (tanto Democratici quanto Repubblicani) negli Stati Uniti. Oggi siamo di fronte ad una ristrutturazione del sistema transatlantico, nel quale gli Usa hanno spinto gli europei verso forme di integrazione multilaterale con l’obiettivo di rendere il mondo più sicuro attraverso l’interdipendenza di interessi economici. Questa fu la risposta ‘degasperiana’ al disastro della Seconda Guerra Mondiale, che portò sia maggior benessere che un forte disincentivo ai conflitti. I processi di globalizzazione hanno però ridefinito strutturalmente questo sistema, facendo saltare gli equilibri sociali che reggevano quei rapporti di interdipendenza. Aprendo i mercati a realtà enormi come la Cina, le classi operaie e quelle medie si sono progressivamente impoverite, generando un risentimento tra le fasce di popolazione interessate. Allo stesso tempo i ceti più istruiti hanno invece tratto vantaggi da questa situazione, con maggiori possibilità di lavoro, di spostamento, di arricchimento culturale. Ma in questo passaggio storico i ceti operai e della classe media, storicamente legati alla sinistra a livello politico, non si sono più sentiti rappresentati e hanno virato verso la destra populista. Percorso inverse hanno invece fatto i ceti colti’ e urbani, storicamente più conservatori e passati invece più a sinistra.

 

E a livello politico?

 

La sinistra, a partire dai Dem americani fino ai partiti europei, si è focalizzata su una visione sempre più forte dei diritti individuali, sviluppando in definitiva una politica delle identità. Nella campagna di Harris, per esempio, hanno avuto un ruolo centrale temi con il diritto all’aborto, i diritti delle minoranze sessuali, la difesa delle varie comunità etniche. Si tratta di temi fondamentali, certo, per una democrazia liberale, che si basa sulla continua espansione dei diritti. Ma questo focus ha portato alla progressiva perdita di contatto con quei gruppi sociali che la sinistra un tempo rappresentava: gli operai meno istruiti, per dire, che vivono in zone spesso periferiche, magari non in grado di comprendere e competere con le novità introdotte dai cambiamenti tecnologici e legati alla globalizzazione. La sinistra non è più riuscita a dialogare con questi gruppi, che si sono quindi spostati in massa verso Trump negli Stati Uniti, verso Salvini e Meloni in Italia, verso Alternative fur Deutschland in Germania o verso Le Pen in Francia. E nell’epoca in cui la sinistra ha sviluppato posizioni sempre più difensive, il fronte nazionalista ha invece attaccato duramente la globalizzazione. E l’insieme che oggi osserviamo tra populismo e nazionalismo è la cifra della nostra epoca storica.

 

Cosa possono fare, quindi, le forze liberali e progressiste di centro-sinistra?

 

È un bel problema. Se si guarda per esempio alla discussione in atto tra i Dem negli Stati Uniti si fatica a delineare una prospettiva. Da un lato, per le sue caratteristiche intrinsecamente liberali, la sinistra non può che essere sensibile ai diritti civili e alla difesa delle minoranze: in caso contrario rinuncerebbe alla sua missione. La sfida è trovare una modalità per collegare la difesa di questi diritti al senso comune di ceti sociali che, per svariate ragioni, non hanno una predisposizione di questo tipo. O con chi invece ha priorità ben diverse, vivendo un forte senso di risentimento legato all’abbassamento del tenore di vita e all’aumento dell’insicurezza. Il voto delle minoranze non è sufficiente per vincere. La politica dell’identità è minoritaria, tipica di gruppi attenti a particolari aspetti culturali. È evidente quindi che questa politica finisca per frammentare la società: per far progredire però una comunità, e in definitiva per vincere le elezioni, è necessario un messaggio unitario. Oggi la sinistra è di fatto diventata una federazione di minoranze, che tra l’altro spesso radicalizzano la loro posizione. Alla componente liberale sullo scenario politico occidentale manca una visione unitaria, un progetto unitario. È mancato sicuramente nella campagna di Kamala Harris, figlia di quella società multiculturale che rischia di trasformarsi in una serie di ‘tribù’, con convergenze di interessi ma ben distinte.

 

Da bisognerebbe partire per definire un messaggio unitario?

 

Serve innanzitutto un progetto e un, o una, leader. La destra ha trovato dei leader in Trump, Orbán, Le Pen, Meloni. Ha dei leader internazionali. Orbán è certamente il più consistente e coerente in Europa, Trump ha reso di fatto Biden una parentesi tra le sue presidenze. La sinistra americana non ha più trovato un leader, un riferimento culturale di caratura internazionale dopo Obama. Citando però Weber, i leader non si inventano: nascono nel fuoco della battaglia politica. E il fuoco ora, per utilizzare la stessa metafora, sarà alto dopo la vittoria di Trump. Vedremo se in questo fuoco simbolico nascerà un leader in grado di conciliare un discorso sui diritti con quello unitario e trasversale della crescita economica. In Usa e in Europa non si parla molto di progetti economici, ma è questo il punto centrale su cui costruire una nuova prospettiva. In Italia, per esempio, Elly Schlein non sembra avere una chiara consapevolezza del problema della crescita, in Francia il problema è stata abbandonato alla dialettica tra fascismo e anti-fascismo. Scholz in Germania ha fallito su tutta la linea. Il problema che deve porsi un nuovo leader dello schieramento liberale è come far crescere le nostre società, partendo dalle sfide poste dallo sviluppo tecnologico e senza abbandonare quelle comunità che subiscono maggiormente il peso dello sviluppo stesso, integrando inclusione sociale e progresso. Il discorso sui diritti è importante, non c’è dubbio, ma non sufficiente: la sinistra non vincerà mai senza un discorso sulla crescita economica. È l’unico argomento che unisce persone, culture e aree territoriali diverse: se si alza la marea, si alza per tutti. Guardando in particolare all’Europa, un’altra sfida che la sinistra dovrebbe raccogliere è poi quella di trovare uno sbocco concreto all’integrazione europea: basterebbe leggere il rapporto Draghi per capire che molte misure prese a livello nazionale, dalle politiche ambientali a quelle relative alla difesa, funzionerebbero molto meglio a livello europeo. Lo stesso Scholz negli scorsi giorni ha parlato di rilanciare l’economia tedesca senza citare mai l’Unione europea e, di fatto, replicando un approccio nazionalista.

 

Nel frattempo, dall’altra parte dello schieramento politico, l’efficacia elettorale dei temi cari alla destra sembra continuare a crescere…

 

Il discorso unitario della destra è semplicistico: molti economisti prevedono che non avrà successo. Gli slogan sono ripetitivi e semplici: chiudere le frontiere, fermare gli arrivi di immigrati, dazi e protezionismo. L’idea è esemplificata dallo slogan trumpista del “Make America Great Again”: la dimensione del ‘prima’ è quella che conta e che identifica un corso precedente alla fase del New Deal e di quel focus sull’interdipendenza tra Stati citato in precedenza. Piaccia o meno, è un discorso che riesce evidentemente a tenere insieme parti considerevoli di una società.

Contenuto sponsorizzato
Contenuto sponsorizzato
Contenuto sponsorizzato
In evidenza
Ambiente
22 gennaio - 20:00
Luca Mercalli a il Dolomiti: "Le autorità cinesi si muovono in modo pragmatico, ma se Trump deciderà di tagliare gli investimenti in tecnologia [...]
Politica
22 gennaio - 21:22
L'ultima (l'ennesima) "dead line" è fissata per venerdì: sino a pochi giorni fa Lega e Patt speravano ancora nel "miracolo Giacca", Fratelli [...]
Montagna
22 gennaio - 18:35
A raccontare l'evento, accaduto sabato pomeriggio sulla pista Nana della Skiarea di Chiesa in Valmalenco, è la stessa vittima dell'incidente, [...]
Contenuto sponsorizzato
Contenuto sponsorizzato
Contenuto sponsorizzato