La grande esclusa: la rimozione della morte come origine del sapere scientifico moderno
Rapito dalla Montagna anni fa, pratica escursionismo, percorre vie ferrate e frequenta qualche falesia e palestra di roccia.
La morte è tornata prepotentemente nella nostra quotidianità, con la pandemia abbiamo la possibilità di ripensare alla sua dimensione collettiva (Qui articolo). Uno dei fondatori del pensiero filosofico moderno fu senza dubbio Cartesio, filosofo francese vissuto nel diciassettesimo secolo, che diede un fortissimo impulso nel passaggio dal “Mondo del Pressapoco” all’ ”Universo della Precisione” per dirla alla Aleksandre Koyré.
L’intero corpus della ratio cartesiana si costituisce su un gesto fondamentale, che è quello della “esclusione”. Intere dimensioni del “sapere” vengono rimosse dal panorama dell’Uomo del Moderno in quanto non afferenti alla Ragione, non scientifiche e quindi non razionali: la follia, il sogno, il corpo, i “saperi bassi” come l’alchimia, l’astrologia, la magia e tutto il mondo dell’irrazionale. Analoga sorte la subiscono l’Infanzia, la Vecchiaia, la Malattia, tutta la sapienza tramandata, l’esperienza comune una costellazione di temi insomma che hanno portato alla nascita dell’Universo senza qualità, l’”Universo-macchina” che ha dissolto la magica armonia del Cosmo in quella che da più studiosi è stata definita la “frattura epistemologica cartesiana”.
E’ in quel periodo, ad esempio, che nasce l’idea di separazione anche fisica dei folli (in quanto folli sono privi di ragione) attraverso i manicomi, dei condannati (in quanto soggetti che compiono reati non sono “ragionevoli”) nelle carceri moderne intese come specifici luoghi di reclusione e non come adattamenti di altri luoghi (le “galere” sono imbarcazioni adattate a luoghi di pena....in movimento) e così via.
Ma perché questa serie di esclusioni potessero avvenire, era necessaria un’esclusione fondamentale che precedesse tutte le altre: quella della Morte. Se per “essere” devo “pensare” (Cogito, ergo sum), devo almeno essere vivo, e quindi la morte va esclusa dal panorama quotidiano. Un lungo processo che ancora sta avvenendo ma che è comunque a buon punto, a meno di eventi epocali come potrebbe diventare questa pandemia ormai universale.
E’ il momento quindi di riavvolgere il nastro per andare a vedere come le oscillazioni dell’idea della morte nei secoli coincidano perfettamente con quelle oscillazioni che vanno dall’anonimato alla celebrativa individualizzazione delle sepolture e con quelle del continuo spostamento dei cimiteri dentro e fuori la città.
Come un tempo, in Europa, il cimitero era intorno alla chiesa, al centro del villaggio, così la morte era al centro della vita. Morti e vivi coesistevano. Nell’Europa medioevale i cimiteri erano luoghi allegri: vi si trovavano quotidianamente prostitute, giocatori e mercanti. Era il tempo dell’attesa e degli scambi: il mercante e la prostituta aspettavano i clienti; i morti aspettavano la risurrezione...Il cimitero era un forum dove si lavorava e ci si dava appuntamento.
Poi, l’ordinamento dei cimiteri mutò: prima la Chiesa e poi le autorità comunali elevarono dei muri di recinzione, scacciarono prostitute e mercanti ed infine respinsero i cimiteri alla periferia delle città. Dal secolo XVII al secolo XIX, il foro chiassoso di una volta divenne via via un luogo silenzioso e deserto: un mondo a parte.
Venne l’ora della “chiusura”: fin dal 1200 i corpi furono deposti (per chi se lo poteva permettere) nelle bare, le quali vennero deposte nelle tombe, le quali vennero chiuse nei cimiteri, nell’inconscio e vano tentativo di sottrarre il corpo morto alla terra, alla decomposizione e sostituendo all’alchimia della terra la fredda pietra e il cemento.
Al cadavere venne contrapposta la raffigurazione prima dello scheletro (la morte secca) e, più tardi, di un corpo imperituro in cima ad un sepolcro, ricomponendo sul piano simbolico ciò che era stato evacuato sul piano reale della pratica sarcofagica. Dopo l’iscrizione e l’effigie, il monumento funerario ricompone il segno del corpo come simulacro, protesi del ricordo, supporto della speranza dell’immortalità.
Nell’Ottocento il cimitero si trasformò quindi in un luogo di conservazione ed accumulazione (si noti che analogamente nacque l’idea del restauro e del capitalismo inteso come accumulo di capitali). I morti sono così ben protetti che non marcirono più nell’imaginazione dei superstiti: sono corpi sdraiati nell’oscurità di una cripta: dormono.
E confinati a poco a poco in questa illusoria “non esistenza”, i morti in quanto tali cessarono di esistere nel nostro quotidiano e vennero accumulati come un capitale prezioso ma un po' “ingombrante” anche in termini fisici come ben sanno gli estensori dei piani regolatori. E ecco infatti, per arrivare ai nostri giorni, che se i morti occupano davvero tanto spazio, basta cremarli, poiché l’urna con le ceneri ne occupa molto meno.
Ma la giustificazione meramente fisica non basta: la rimozione della morte ha spinto alla “volatilizzazione” del cadavere attraverso la cremazione. Ed i cimiteri, considerati come luoghi specifici, nel momento in cui da periferici si ritrovano immersi come “spazi persi” nel tessuto urbano, per morfologia e configurazioni si confondono e nascondono tra le architetture della città. Indifferenziato e mimetico, il cimitero si presenta ormai come uno spazio/segno analogico al mondo dei vivi, dissimulato nella Natura (come i cimitero-parco americani o del nord Europa) o nella città (come il cimiteri-edificio di Modena o i cimiteri verticali in progetto a Verona o a Genova).
Al prossimo appuntamento: “Distruggere, dissimulare, conservare”.