Se l'umorismo ha basi solide il Sol non tramonta mai
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Meglio Sol che male accompagnato? Per Andrea Castelli il proverbio (qui maltrattato ad uso d’incipit) non vale. Anche volesse, Andrea Castelli da Sol non sarà mai. Se glielo fai notare si schermisce ma gongola da sotto l’espressione fintamente distaccata (d’altronde cosa sarebbe un attore senza mimica?). Mai da Sol allora. E nemmeno “male accompagnato” perché per definizione è un bene ogni tipo di pubblico che abbandona il divano di casa per la poltrona di un teatro e di qualsiasi altro luogo di cultura (eccolo l’unico e vero progresso).
Ad accompagnare la carriera longeva di Andrea Castelli c’è stato, c’è e certamente ci sarà il “suo” pubblico: quello che, per dirla con l’Arma, è “nei secoli fedele” (a volte in modo perfino imbarazzante). Un pubblico che nell’inesorabile invecchiamento passa non infrequentemente il testimone a figli o nipoti.
Nessuna meraviglia dunque che un pubblico eterogeneo e da sempre interclassista si sia precipitato a decretare un rapido “sold out” per vivere collettivamente – giovedì 22 - un dejà vu lungo 36 anni. Dejà vu anche al botteghino.
“Sol” spopolò in poche ore di prenotazione: allora come ora. Andrea Castelli tornerà per una notte – una notte Sol - al punto di partenza del suo onorato percorso artistico. Nel 1986 cercò e trovò il suo “posto al Sol” a scavalco tra la prosa spesso drammatica degli amatori e l’impertinenza di un “sarà professionismo” giovane, ambizioso e atipico. Ma per nulla spocchioso. Il giusto mezzo di Castelli non poteva che essere un umorismo birbante ma rispettoso: una lente comica e deformante sulle croci (tante) e sulle delizie (non poche) di una società trentina semplice fino alla semplicioneria, mai eccessivamente ruspante e piuttosto restia a guardare oltre le montagne per guardarsi dentro.
“Sol” fu il suo primo monologo. Una sfida su gentile concessione di quegli Spiazaroi che per Castelli furono compagni di goliardia senza bisogno di università, gruppo amicale di divertimento prima che curiosa, innovativa e per qualche spunto indimenticabile compagnia da palco. Come non tornare pischelli, infatti, ricordando Teleroto e quel “Nar de sghimbezon” che fu una versione cult del “Gioca Jouer” di Cecchetto?
“Sol” fu il primo azzardo di una serie monologante firmata da un Castelli con la mente apparentemente in aria ma con i piedi saldi in terra. Il monologo: proposta prima di lui inesistente sui palchi locali. Di volta in volta Castelli ha saputo portare il monologo a praticare diversi territori emozionali diversi: ironia (preferibilmente autoironica) e leggerezza ma anche impegno, tematiche per nulla allegre o facili, profondità. Monologhi in dialetto e in “lingua” perché dell’uno come dell’altra non è giusto far senza.
Se far ridere è una missione benemerita far pensare senza affogare i neuroni altrui in un mare di intellettualismo e pesantezza (quella che spesso fa di una platea teatrale una camera di tortura) è una virtù ancora più nobile. Il gioco – si sa – viene meglio agli ironici di natura, a chi colazione con l’umorismo ma sa anche che la sola battuta non sazia. Di qui lo studio, cioè ciò che fa la differenza tra l’intrattenitore furbastro e l’attore. Il primo delizia le platee di venditori di enciclopedie amoreggiando con faciloneria e volgarità. Il secondo, l’attore, suda nel non cadere nel trito e nello scontato. Di qui l’umiltà che ti consiglia di accettare i consigli - (quelli dei registi prima di tutti) - utili a non recitarsi addosso (copyright Woody Allen, anche se il libro di massime mitiche era Citarsi Addosso).
Se all’ego imponi tecnica e regole è facile che si trasformi in personalità. Se lo lasci, al contrario, libero sei condannato ad una vita di presuntuoso cazzeggio.
Da “Sol” in poi Andrea Castelli deve aver metabolizzato il fatto che un successo senza rischi è una soddisfazione che prima o poi ti frega (per l’artista la fregatura è l’inaridimento della ripetizione). Di strade ne ha percorse dunque tante (molte in salita, come si conviene ad un’indole montanara mai disconosciuta). Ha scalato le vie teatrali sia da protagonista che da comparsa. S’è arrampicato nell’impervio della ferita mai rimarginata del Cermis, s’è buttato nell’introspezione sentimentalmente dolorosa di un terrorismo tutto famigliare (il padre di Mara Cagol).
Ha diretto e si è fatto dirigere Castelli. Ha portato la sfida improponibile del dialetto trentino a Napoli e quella dell’italiano nella valle trentina più sperduta, laddove l’italiano vale l’ostrogoto. Ha improvvisato sì, ma s’è pure studiato ogni virgola dei copioni. Governare la spontaneità è un lavoro duro così come è dura non credersi arrivati quando la risata altrui scatta anche quando non si proferisce parola.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare l’eccesso di trasporto e ipotizzare che Castelli abbia messo mano al portafoglio chiedendoci quanto costa l’incenso. Beh, mettiamola così: qui (nel pezzo) si prova convintamente ad elogiare (a gratis) una virtù su tutte: il senso della misura. Ecco, il senso della misura, il saper dosare tempi e modi di calcare il palco, lo scegliere di fare in proprio se c’è il testo giusto ed il giusto contesto ma l’adattarsi felice alla mano altrui (registica) per lasciarsi scavare dentro e far uscire quello che teatralmente ma forse anche caratterialmente era ignoto. Il senso della misura di Andra Castelli è una caratteristica che fa la differenza.
Dosare l’umorismo, vestirlo di conoscenze (letterarie, sociali, umane) piuttosto profonde anche quando una battuta sembra nuda fa la differenza tra la comicità con un fine e quella fine a sé stessa del guitto. Il fine di Castelli è sempre stato quello di scherzare su un Trentino cui vuole un gran bene quando non è rovinato da una politica nulla più che politicante e da un egoismo purtroppo sempre più trasversale e dilagante.
Dei trentini ha fustigato bonariamente i vizi ma ne ha anche esaltato le virtù solidali. Lo ha fatto senza salire in cattedra, senza deragliare nel battutismo facile e facilmente volgarizzabile. Castelli lo fa da sempre. Succedeva in un mondo fa, quando iniziò sulle orme di un padre filodrammatico capace di recitare senza fili e senza fare drammi nell’Armonia di uno storico ed indimenticato Club. Succede anche oggi, quando Castelli sale in bici pedalando (a parole) tra le fatiche e i miti dei Boci che furono campioni e dei Boci che avrebbero voluto essere campioni e che da gregari forse lo erano senza saperlo (come la maggioranza degli onesti).
Fa l’attore Castelli. Fa l’autore. Fa spesso il regista di sé stesso senza tuttavia sentirsi limitato quando viene diretto. Gode nell’affabulare sia in versione singola e collettiva (quando è uno dei tanti in un lavoro eppure spicca).
Sul palco, Castelli gode alla faccia dell’età (classe 1950, né vecchio né giovane anche se a qualche pillola non si sfugge), dei reumi e della memoria che a volte non si rinfresca nemmeno dentro il freezer. Gode sul palco e fa godere il pubblico – l’Andrea –perché mezzo secolo e più di luce “piazzata” su volto dentro il buio a volte scatarrante dei teatri si sopportano solo se bravura e passione vanno a braccetto. È così che la milionesima volta non è meno emozionante della prima. Semmai è solo più faticosa.
Il “Sol” di giovedì, quello di ritorno, non potrà essere una pura operazione nostalgia, né una replica pedissequa che imbarazzerebbe l’attore anche sotto il prevedibile scroscio di applausi. Il Trentino di allora non è quello di oggi. Il linguaggio di allora non è quello di oggi. Essendo titolato come remix, il “Sol” odierno (una tantum) dovrà giocoforza prevedere incursioni in un presente che ovunque lo si giri è peggiorato alquanto.Tuttavia tranqulli: la “magnesia smisurata” e gli altri svarioni del monologo non hanno bisogno di riadattamenti.
“Sol” al Sociale, nel teatro di casa, non è una rivincita per Castelli. Non chiude un cerchio ma sarà comunque una tappa di quelle che non si dimenticano. Sì, è vero, Andrea Castelli non ha mai del tutto capito perché il Trentino delle "grandi" istituzioni culturali lo ha spinto ad emigrare in Alto Adige (Stabile di Bolzano, Bernardi prima, Zambaldi poi) per cercare e trovare produzioni, spazi, consensi perfino di confine (e recentemente qualche ingrato colpo basso).
Si è vero, Andrea Castelli ha brontolato (anche in silenzio, affidandosi alle smorfie) all’inverosimile prima di scoprire, con sorpresa, che un veneto giunto a dirigere il Centro Santa Chiara gli ha aperto in un niente una porta chiusa per anni, infischiandosene di rabbia e magone.
Ora Castelli farà da Sol (come sempre ben accompagnato da Nicoletta, la sua impagabile metà coniugal/manageriale) e sarà finalmente profeta in patria. Meglio arrivarci così, senza dover chiedere (o rendere) favori e senza dover spiegare perché anche a 72 anni non si è ancora stufi di un sipario.
Anzi no, qualcosa di sicuro spiegherà. Ad esempio l’importanza di non stufarsi di sperimentare anche le strade insicure per non ridurre l’arte ad una replica dal sapore sempre uguale. Come farà? Forse con uno di quei suoi comizi lunghi un attimo: “Quattro cose mi hanno rovinato nella vita: le donne, il teatro, la matematica e le donne”.