Se il teatro corale rende semplice la complessità
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
La forza delle donne. Per gli uomini è inarrivabile. La stupidità del fascismo. Di ogni totalitarismo. Una stupidità tragica. Drammatica per quanto male ha fatto e per quanto male ancora continua a fare un fascismo resuscitato - se mai fosse davvero morto - e nemmeno celato sotto mentite spoglie. Ancora: l’inconsistenza dello Stato cui fa da contraltare la terribile consistenza dell’anti-Stato mafioso.
Anti-Stato solo per convenzione linguistica perché nella realtà è dura distinguere. La Sicilia ne ha saputo e ne sa più del resto d’Italia. Ma il resto di un’Italia in grisaglia malandrina s’è presto adeguato all’Isola. Il ponte sullo Stretto non si farà mai. Il ponte delle malefatte c’è sempre stato.
Tre questioni, tre grosse questioni. Sono questioni che fanno tracimare fiumi di parole. Sui libri e nei convegni. Ma sono questioni che tanto i fiumi di parole quanto i convegni non avvicinano – o non lo fanno abbastanza – al comune sentire. Epperò la partita – e che partita – forse non è del tutto persa. Non è persa – ad esempio - quando la si gioca in palcoscenico con la bravura del coraggio civile. La partita non è persa se la distanza tra palco e platea - palco e palchi - s’annulla. Così come solo in teatro, solo nell’arte, può accadere.
Non succede certo sempre. Ma se succede la complessità dei temi si fa semplicità. Si fa efficacia. La didattica dell’efficacia si può recitare, si può cantare, si può suonare. Se tutto questo – parola, canto e musica – è un insieme capita che “le si canti e le si suoni” a chi si crogiola in una beata superficialità.
A teatro, infatti, la P di partecipazione è la prima voce di un vocabolario sregolato solo in apparenza. Nel vocabolario di scena la E di emozione arriva alla C di consapevolezza. Per usare questo vocabolario non serve aver studiato. Basta la D di disponibilità. Frequentando il vocabolario del buon teatro ci si diploma in a tempo record, (un paio d’ore, intervallo compreso). E se prima di uno spettacolo si intuiva, durante lo spettacolo e nel fragore di un applauso lungo e onestamente grato si “capisce”.
Chi al Sociale ha visto “Il casellante” - una perla nella stagione di prosa del Centro Santa Chiara - ha certamente capito che il teatro può parlare contemporaneamente al cuore e alla mente. Ha capito che una prosa che non si mette in posa può aumentare i battiti del primo, per svegliare i neuroni assopiti del secondo.
“Il casellante” è nato – molto tempo fa - dalla penna felice di Camilleri. E’ una penna miracolosa per come traduce in lingua popolare l’analisi sociale, quella storica, quella di costume e quella culturale. E’ una lingua popolare nel senso più democratico del termine: una lingua per tutti. Anche per quelli che inciampano nel dialetto, nella sicilianità ineliminabile di Camilleri.
Ma anche di fronte a qualche termine ostico – “ti talio per dire ti vedo” – non si rischia mai di perdere l’equilibrio. Con Camilleri si rimane incollati al terreno. E’ il terreno di una storia intensa e dei suoi personaggi. Una storia fertile di sentimento e di sensibilità.
In teatro “Il casellante” è sintonia. La sintonia tra regista e autore. Sintonia tra attori e regista. Sintonia con il pubblico. Da subito, ma in crescendo. Una sintonia che aumenta ad ogni mutazione del testo, della scena, della vicenda, del contesto. Una sintonia che regge al comico e che regge al tragico.
Il comico ed il tragico – infatti- si alternano in una trama ad alto tasso di coinvolgimento. Eppure l’andamento, la regia con la R maiuscola, l’interpretazione altrettanto maiuscola dei tre attori principali sono elementi meno importanti dei messaggi che “Il casellante” lancia. Messaggi che ti restano appiccicati all’anima anche dopo che il sipario chiude.
Il primo messaggio è il femminismo. E’ il femminismo depurato da ogni orpello ideologico. E per questo è credibile. E’ il femminismo ante litteram – siamo negli anni 40 - di Minica. E’ la donna che si fa albero “da frutto” per affermare se stessa e per affermare comunque la vita. Lo fa dopo la devastazione di una violenza maschile che le ha negato la maternità. Valeria Contadino dà voce anche alle viscere nel momento più forte, più crudo e più vero dello spettacolo. Il dolore che deve rappresentare si materializza in un urlo, uno spasmo, un silenzio. La sofferenza e la disperazione non sono più un fatto di copione.
Il secondo messaggio è l’amore. C’è maschio e maschio. Mario Incudine è Nino, il marito di Minica. Le si dedica anche nell’impossibile. Asseconda con innesti di un affetto totalizzante la lucida follia di una rinascita simbolica: la rinascita vegetale di Minica. Sparisce il “masculo” , il padrone di una tradizione non solo siciliana. C’è il maschio fragile che diventa un gigante nella dedizione e nella comprensione.
Camilleri irride chi lo chiama maestro. Ma qui è in cattedra. Non si scappa.
Il terzo messaggio è il potere dirompente dell’ironia. Per smitizzare il fascismo basta ridurre “Faccetta Nera” ad una mazurka. Una dolce mandolinata azzera la solennità cameratesca, la spoglia di ogni prosopopea. Per smitizzare il fascismo basta deformarlo, ridicolizzandolo in un tono o in una smorfia.
A Moni Ovadia viene facile perché sul palco non fa nulla di diverso da ciò che Moni Ovadia fa fuori dal palco. Lui lotta da sempre per ogni libertà personale e collettiva. Da sempre spiazza l’isteria dei cretini con il calmo incedere di una cultura cosmopolita. Coerentemente nel “Casellante” Moni Ovadia è una presenza che non prevarica.
Si diceva del vocabolario ribelle del teatro. Ebbene, un’altra lettera che spicca è la C. La C di coralità. “Il casellante” è un lavoro corale, non ci piove. Il coro sul palco non stecca quando accelera il ritmo o quando, al contrario, decelera per tuffarsi nel grigio e nel nero dell’animo umano.
Ma la coralità di una compagnia affiatata in teatro non è rara. Raro è il fatto che una compagnia affiatata sappia iscrivere di forza al coro anche lo spettatore. Lo spettatore che “entra” nella storia con un’emozione via via sempre più palpabile. Sempre più misurabile. Se questo “fenomeno” si realizza – e con “Il casellante” si realizza – il teatro è un’esperienza. Di vita.