Piazza Dante e lo spaccio, dialogo tra il Sommo e Minosse perché il problema è chi vende ma pure chi compra
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Sbotta il buon Alighieri, l’immobile “padrone” della piazza. “Me ne sono stato zitto per anni. Il fiorentino Zocchi, lo scultore, mi immortalò nel bronzo. Ma questa posa non garba”. Il sommo è stufo di quel braccio alzato che punta a nord. “Vabbè – dice – che con l’altro braccio devo sorreggere la mia Commedia. Ma ormai di commedie ne fanno tutti e le fanno pure male. A me adesso servono tutte e due le braccia. Devo allargarle in segno di disarmo. Ne ho sentite troppe sul degrado di questa piazza che mi hanno intitolato e alla quale mi sono affezionato. E adesso che me l’hanno chiusa, io a chi mi rivolgo? Ai piccioni che mi rispondono a botte di guano?”.
È stufo il sommo. Vuole usare entrambe le braccia. Vuole allargarle, quasi una resa, a chi semplifica i problemi complessi urlando la semplicità improduttiva di qualche slogan celodurista. Cosicché Dante si rivolge a Minosse, cercando solidarietà. Lui, Minosse, gli sta sotto. E pensa. A che pensa? Forse alla solitudine. “Caro Dante – gli dice l’accovacciato – tu che dall’alto puoi vedere un po’ più lontano di me mi sai dire dove sono finiti spacciatori e rissaioli. È vero che ce ne siamo liberati?”. Dante tentenna un po’ perché aguzzare la vista con i settecento anni che si ritrova, e senza occhiali, deve essere una fatica. Ma si impegna il Sommo. In fondo la vista lunga ce l’ha da quando ha spedito all’Inferno il malaffare della sua epoca certo che nell’Inferno ci sarebbe stato posto anche per il malaffare odierno.
“Caro il mio Minosse – dice Dante - da pensatore quale sei potresti arrivarci da solo. Questo è un tipico caso di trasloco dei guai. Tuttavia do un occhio sperando che - incriccato come sono - il collo non mi si blocchi”. Dante scruta; nord, est, sud, ovest. Minosse aspetta: è paziente da millenni. “Ecco – lo sveglia l’Alighieri - da quassù vedo la Portela, Santa Maria, la zona del parco San Marco, l’area delle Albere, il Tridente, Canova, Gardolo. E pure Mattarello. Vedo i sottopassi, gli angoli meno esposti, i più nascosti. Vedo tutta la città e vedo anche loro, quelli che mi trafficavano sotto il lungo naso. No, non li hanno ingabbiati come si faceva ai miei tempi. Lavorano, si fa per dire, come e più di prima. Hanno solo cambiato indirizzo”.
Minosse tituba. “Ma sei sicuro? Hanno sbandierato più a destra che a manca il fatto che chiudendo questa piazza, Trento sarebbe rinata nel decoro e nell’onestà, senza più malvivenza”. Dante prima tace, poi pensa alle braccia che non può allargare e infine abbozza un discorso svogliato: “Minosse mio, siamo qui da sempre. Ci avessero chiesto un parere non ci saremmo sottratti di sicuro. La delinquenza è mobile. A cambiare luoghi senza cambiare le abitudini malavitose ci mette un niente. Adesso che faranno i paladini della cancellata? Proporranno di chiudere l’intera città?”. Minosse sembra affondare ancor di più la testa e il gomito pare in difficoltà nel sorreggerla. Ma è un pensatore e non può cambiare mestiere. Come forse vorrebbe in un presente che ha abolito la fatica del pensiero in nome degli slogan senza costrutto.
“Ehi Sommo – insiste Minosse - ma allora non ti va bene niente. Tu che hai inventato la lingua dovresti gioire del fatto che senza gli stranieri che gironzolano la piazza sarà finalmente italiana, anzi finalmente trentina. Finalmente sana”. È qui che Dante perde l’aplomb e smarrisce ogni poesia: “Minosse, ci sei o ci fai? Abbiamo passato ore a contare quanti italiani, quanti trentini, cercavano a tutte le ore del giorno e della notte fumo, pasticche e peggio: con la foga dei più accaniti cercatori di funghi, magari allucinogeni. Senza chi compra, chi vende si gira i pollici. Il commercio, quello brutto, non è solo etnico. Ci vuole tanto a capirlo? Il commercio illegale, poi, trasloca senza batter ciglio: non ha bisogno di chiedere licenze compilando montagne di carta. E i compratori si adattano ad ogni nuova geografia del malaffare”.
Dante, si sa, è saggio. Minosse lo sa, ma si diverte a fare l’avvocato del diavolo che in tema di Commedia e di Inferno ci sta bene. “Sommo – spiega Minosse - spero che non vorrai propinarmi per l’ennesima volta la teoria buonista che crede di risolvere i guai della piazza e degli altri luoghi cupi con luce, animazione, spettacolo, mercatini, eccetera”. Dante è sgamato, non ci casca: “E chi l’ha mai sostenuto? Queste sono iniziative utili solo se non ti scordi di reprimere con la certezza della pena. Ma quanti ne abbiamo visti di delinquenti finiti in cella un giorno per poi tornare qui? Quasi che il loro posto fosse prenotato? Adesso che hanno chiuso la piazza si organizzeranno altrove. Non credo ci siano abbastanza ferro e lucchetti per alzare cancelli in tutta la città”.
Dante e Minosse. Il monumento. Un dialogo postumo che andrebbe inteso come preventivo. La piazza resterà aperta semplicemente perché chiuderla servirebbe solo a dirottare altrove i problemi. Per poi rincorrerli – i problemi - con altre proposte insulse ma senza alcuna volontà reale di risolverli. Se davvero decidesse di parlare Dante, il Sommo, modificherebbe il suo verso più famoso. Da “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” a “lasciatemi sperare – dopo 700 anni- in politiche più serie, concrete e intelligenti”.
Sì, perché nell’affrontare i guai grandi ma non giganteschi della Trento che delinque, l’intelligenza, la consapevolezza della complessità e delle mille sfaccettature del problema che pure esiste, sono spesso sembrati un difetto. Un difetto trasversale nell’analisi approssimativa dei fenomeni. Un difetto di coraggio nello sperimentare con la medesima decisione opzioni repressive credibili e opzioni sociali altrettanto incisive, capaci di distinguere tra malviventi e disperati. La demagogia non ha difetti. Non studia e ulula. Ma se la si lascia ululare troppo, magari non vince ma di danni ne fa. E tanti.