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Ieri, 3 maggio, sono andato a votare per il sindaco di Trento

Di fronte al sindaco che ieri mi sono eletto da solo ci sono incognite che non fanno tremare solo i polsi. Fanno tremare dalle unghie dei piedi alla punta del capello. L’economia tramortita, il lavoro che ciao, l’incertezza come primo e secondo pensiero, la negazione temporanea dei rapporti. Al sindaco che mi sono eletto ieri non chiedo miracoli. Ma pretendo, impertinente ma deciso, di osare tutto l’osabile e anche di più
DAL BLOG
Di Carmine Ragozzino - 04 maggio 2020

Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino

Ho rischiato l’arresto. Oppure il Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Peggio ancora, il pubblico ludibrio. Coscio del pericolo, me ne infischio. Ieri, 3 maggio, sono andato a votare- solingo - per il sindaco di Trento. Tanto, bardato tra naso e bocca - come legge sanitaria comanda - nessuno ha potuto dirmi “Ti conosco mascherina”. Sì, lo so: le elezioni non c’erano. Le hanno rinviate causa virus. Si faranno forse a settembre. O sine die?  Nell'attesa, io ho messo in atto la mia piccola provocazione. Mi sono comportato “come se”. Volevo poter scegliere ieri - non sine die – l’amministrazione che mi garba.

 

 Cosa mi garba? Un’amministrazione – un Comune – che sostituisca il “colore” con il calore. Il calore non è - non sarà mai – l’unità di misura della politica. Ma se la politica tornasse a scaldare i cuori anziché congelarli nel disinteresse e nel fastidio, il calore potrebbe essere il collante della rinascita sociale. Perfino rivoluzionario. L’Attack di un nuovo civismo.

 

 Il calore di un’amministrazione si misura in vicinanza, coraggio, creatività. E ancora in rapidità di risposta, concretezza, comprensibilità dei messaggi, traduzioni semplici della complessità. E magari anche in onestà.

 

 Premessa. Nell’urna che non c’è, io ho votato per la continuità. Ho votato – voterò quando si potrà - per il cosiddetto centro-sinistra autonomista. Tuttavia, ho scelto la continuità per imprimerle discontinuità. Molta, ma molta, discontinuità.

 

 Ho votato in solitudine. Su una scheda casereccia: autoprodotta. Una scheda fuori norma per eleggere un sindaco che sia finalmente capace di non accontentarsi di governare il “giorno per giorno” : senza infamia ma anche senza lode. Sulla mia scheda non c’erano stampati i simboli di partito. Gli sforzi cromatici non mi entusiasmano. Sulla mia scheda erano indicati solo ideali. E i metodi conseguenti. Se non per praticarli, almeno per non dimenticarli.

 

 È un pro-memoria la mia scheda elettorale. Serve a ricordarmi che la Trento di oggi è tutt’altra cosa rispetto alla città di soli tre mesi fa. Che il mondo intero è tutt’altra cosa. Prima della paura interclassista - la paura di gocce virali che possono diventare oceani di disperazione - ad un Comune, al suo governo, si poteva perdonare anche l’imperdonabile. Si poteva perdonare il “tran tran”. A Trento stavamo bene: non tutti, ma quasi tutti. Quando il portafoglio non piange e una febbriciattola non procura incubi pandemici, l’attitudine al “lasciar fare” accomuna: singoli e collettività. È la delega, bellezza. Ci metti del tuo il giorno delle elezioni e poi ti dedichi ad altro. Nell’orto e nell’orticello non si coltivano  né la partecipazione né il controllo. Si sta troppo al di qua della politica. E la politica è libera di andare: dove gli pare.

 

 Questo, però, solo fino a ieri. Fino a pochi mesi fa. Oggi politica e amministrazione non possono permettersi alcuna distonia con la realtà annaspante. Nelle piccole come nelle grandi aspettative. C’è urgenza di chiarezza. C’è urgenza di qualità negli amministratori e nella loro azione. C’è necessità di scatto prolungato: il surplace non basta più. La società obbligata alla distanza potrebbe distaccarsi velocemente anche da quella coesione che pur a fatica e nel mare delle contraddizioni l’ha fin qui tenuta assieme. L’isolamento temporaneo, purtroppo senza data di scadenza, potrebbe diventare  in fretta una frattura valoriale.  Il tutti contro tutti con gli ultimi ancora più ultimi: devastante.

 

 Per Trento, la città che il mio voto solitario ha affidato ad uno dei tre aspiranti sindaci in competizione (Ianeselli, mica posso nascondermi), la discontinuità non è buttare a mare quel che di buono si è comunque realizzato. Il problema, la discriminante, è semmai cambiare mare. Arzigogolato? Vero, allora andiamo sul semplice.

 

Se una coalizione che ti sostiene unisce formalmente gli estremi rosso-verde-rosa passando per un centro virtuale non è scritto in nessun Vangelo che ognuno debba obbligatoriamente trovare il suo posto al sole dell’amministrazione. Se vuoi davvero “fare”, caro il mio nuovo sindaco,  devi farlo con una squadra che sia equilibrata: nelle competenze, nello stile, nella passione.

 

 L’equilibrio delle appartenenze è ciò che di solito passa il convento. Ma si tratta di fuffa. C'è urgenza di competenze: riconosciute e riconoscibili. Il Cencelli serve a quadrare i cerchi, ma non è che le ruote di un quadrato possano percorrere tanta strada. Sono affari del sindaco e sono affari nostri, diranno i partiti. Sono anche affari miei, dico io. Così come affare anche mio è sapere dove si vuole andare a parare.  Sapere cioè con con quale respiro e con quali strumenti si garantiranno alla città la fiducia e punti di riferimento utili a diminuire il senso di smarrimento. Quello smarrimento che oggi è, purtroppo, soltanto all’inizio.

 

 Di fronte al sindaco che ieri mi sono eletto da solo ci sono incognite che non fanno tremare solo i polsi. Fanno tremare dalle unghie dei piedi alla punta del capello. L’economia tramortita, il lavoro che ciao, l’incertezza come primo e secondo pensiero, la negazione temporanea dei rapporti che potrebbe diventare ergastolo per la paura e per l’autolimitazione, gli spazi che non spaziano nella socialità, la scuola che non sarà più, il ristorante e il bar che meglio farsi chef casalinghi che condannarsi ad una convivialità malata e che fa andare di traverso. E mille altre disgrazie di un quotidiano da ricostruire.

 

 Al sindaco che mi sono eletto ieri non chiedo miracoli. Ma pretendo, impertinente ma deciso, di osare tutto l’osabile e anche di più. Non accetti che la macchina comunale pigi sul freno quando invece c’è da accelerare. Non si impantani nei sermoni: osando l'inedito di poche parole e tanti fatti può far capire alla comunità che un sindaco c'è. E che fa.

 

 Non prometta, mio sindaco, quello che non può. Ma di quello che può promettere premetta tempi e modi certi. Non si imprigioni alle fisime della coalizione – (che ci saranno, orco se ci saranno) ma inchiodi la coalizione al bene comune piuttosto che al bene di “chi sta in Comune”. Se una Provincia a trazione diversa dal Comune le volesse far pagare la diversità non si perda in preghiere e appelli: lotta dura, senza paura. E possibilmente pubblica perché sugli scontri in “camera caritatis” è sempre lecito dubitare.

 

 Vada oltre, caro sindaco, ma non ci vada da solo. Si faccia accompagnare, sempre, dalla città delle capacità: quella tecniche ovviamente ma anche, soprattutto, quella umane. Esistono capacità “civiche” che sono trasversali, che non si fanno impicciare dalle parrocchie di provenienza. Crei dunque le Agorà di chi lavora con abnegazione e perizia in ogni campo: economico, culturale, solidale. E dia a quelle Agorà un valore reale, in un governo collettivo e irrituale della città. Meno formale, più sostanziale. Un governo che non si neghi la fantasia.

 

 Le chiedo un Comune aperto, ma non a tutti. Sbarri la porta del Comune ai “pesta - piano” ma anche ai “pasdaran” delle ideologie, (comprese quelle a sinistra) che sono anacronismo inconsapevole.

 

 Lei, il mio sindaco, dovrà convincere senza perdersi nelle nebbie che le priorità si chiamano priorità perché prevedono che non tutto sia importante allo stesso modo. L’aiuto a chi affonda davvero nel “durante” e nel “dopo” emergenza è una priorità. Non aiutare chi per anni ha barato sui conti per il fisco e oggi batte cassa assieme ai poveri veri, beh è anche questa una priorità. I più deboli sono una priorità. I meno deboli sono meno prioritari.

 

 Di esempi come questi ce n’è a iosa. Non la invidio. Però mi fido. Confido nella continuità discontinua, come avrà capito. Oggi ci sarà lo spoglio del mio voto più solitario del passero leopardiano? Certo che no. Non c’erano elezioni. Ma ci saranno, prima o poi. Ci saranno quando gli animi saranno ancor più intristiti di oggi, forse quando il portafoglio e le privazioni avranno trasformato il malessere in rabbia. Chi soffia sul fuoco avrà solo da soffiare più forte e potrebbe raccogliere frutti immeritati.

 

Chi il fuoco vuole che non appicchi, beh deve pensare oggi, (anzi ieri) come se fosse domani. E, possibilmente, farcelo sapere. Caro il mio sindaco mi permetta di manomettere un detto: una sua proposta coraggiosa al giorno potrebbe levare il demagogo di torno.

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