Confidenzialmente accomodati nei divani. Ecco come sul palco il pubblico torna protagonista insieme all'artista
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Se metti in folle non parti. Tantomeno, riparti. Ma se metti un po’ di lucida follia per festeggiare una voglia di ricominciare durata un anno e più tra frustrazioni al diapason, beh meriti almeno un surplus di attenzione. Di curiosità. O meglio, ti sei guadagnato l’applauso. Un applauso che premia l’originalità e che non ha nemmeno bisogno di curarsi del contenuto offerto.
La lucida follia di cui sopra è targata Teatro di Villazzano, una vitalissima realtà finché la vitalità della proposta culturale multidisciplinare era permessa. Ma poi tristezza infinita e preoccupata. E poi un eterno “chiuso causa pandemia”. Villazzano come tutte le altre realtà di spettacolo dal vivo in Trentino e altrove. Villazzano costretto – così come tutti, grandi e piccoli – a marcare una presenza, (meglio, una sopravvivenza), buttandosi “per forza” sulle piattaforme “on line”.
Villazzano, come tutti gli altri, obbligato all’ibrido, al surrogato, a quell’annullamento telematico della fisicità che ha privato le arti della loro essenza ma che per fortuna c’è stato.
A Villazzano i Corradini (Mirko, Christian) and friends (un team che ce ne fosse tanti) devono aver meditato con una certa profondità sulla parola “ricominciare”. O forse no. Forse hanno solo scelto di giocare così come spesso hanno abituato sé stessi e il loro pubblico sulle “forme” dello spettacolo. Sulle forme del teatro oltre che sulla sostanza. Un calvario di poltrone troppo a lungo vuote si potrà mai dimenticare tornando a riempire la platea forzatamente dimezzata? In molti casi sì, a Villazzano no. Al teatro di collina si è scelta la via di un ragionato autolesionismo economico – incassi nulla più che simbolici e fronte di spese per nulla simboliche - per evidenziare un’urgenza e lanciare un messaggio forte.
Il messaggio? Oggi, nel ricominciare ancora pieno di incognite, serve la massima vicinanza tra attore e pubblico. Di più, non solo vicinanza: urge una vera “fusione”.
Come dire, anzi dicendolo proprio, che durante lo stop si è perso così tanto in termini di contatto, comunicazione, crescita che è impossibile ripartire come se nulla fosse successo. E’ impossibile ripartire “replicando” quel che per molto tempo non sarà più replicabile per quante sono le varianti emozionali che hanno imperversato nei mesi virali. Eccola dunque la ripartenza di Villazzano. Eccola la curiosa logistica, l’estemporaneità logistica, che porta lo spettatore sul palco riducendo necessariamente al lumicino la capienza ma riattivando la forza magica di un “a tu per tu” fra chi fa arte e chi la riceve.
Certo, l’esperimento non potrà durare troppo perché l’idea di lavorare in totale perdita può avere solo uno scopo simbolico. Ma quella decina di divani colorati comprati in internet e messi a riempire il palco per far sedere una ventina e non di più di spettatori singoli o coppie di congiunti regolarmente a viso bardato, febbre misurata e mano sanificata fanno sì che lo spettacolo sia un paradigma e non una “trovata”.
Gigioneggiando su uno slogan azzeccato a Villazzano hanno proposto propone una riflessione quanto mai attuale. “Dal divano di casa al divano in teatro”: questo il motto della minirassegna di prosa confidenziale che giovedì e venerdì offre la sua seconda puntata. È l’occasione per pensare alla differenza, grande differenza, tra l’essere stati costretti a vivere la pandemia spaparanzati dentro il solo mondo parentale e poter rivivere rapporti sociali in forma collettiva. Comodi, certo, nell’uno e nell’altro caso. Ma se il divano di casa è stato l’imbarazzante comodità da “prigionieri” di una inevitabile prevenzione sanitaria, il divano sul palco di un teatro è finalmente libertà: la libertà di rapportarsi.
Un rapportarsi con l’arte, di sicuro. Ma di più, e di più importante, di rapportarsi con gli altri spettatori, con gli attori o i musicisti, con i promotori dello spettacolo, con la magia di un palcoscenico dove stai “sopra” e non sotto. Non è solo lo spettacolo che deve ripartire. Deve ripartire un clima, un’abitudine rassicurante che non è né facile né scontata.
La prima puntata dell’esperienza avviata a Villazzano è stata un momento di conforto grazie alla bravura e all’immediatezza di Emanuele Cerra (Evoè Teatro) e ai ricami sonori di Antonio Bertoni. L’affabulatore in perfetto agio con la vicinanza al pubblico ha divagato senza perdersi sul tema della fame come esilarante marchio unificante di un’Italia che diventa nazione solo se le si cambia nome e la si chiama “In teglia”.
Giovedì e venerdì – (già sold out i venti posti) – toccherà ad un “cantinbanco” che di cognome fa Sordo (Nicola) ma che ha l’udito potenziato quando c’è da amplificare l’umore proprio e quello del pubblico. “Io dico tu”, recita la locandina, è uno spettacolo “fuori dal comune ma dentro un teatro”.
Infatti, dentro un teatro tutto è possibile. È possibile anche decidere che l’inconsueto logistico deve trasformarsi in inconsueto artistico per non abdicare al bisogno di sperimentare strade nuove nel momento in cui verrebbe naturale “sfruttare” al massimo gli scarsi spazi consentiti dagli onerosi protocolli di riapertura dei teatri. Ma forse è proprio questo il punto. A Villazzano sperimentano una “allegra e confidenziale rieducazione” al clima dello spettacolo prima ancora che allo spettacolo. Mica male come provocazione.