Al Sociale il ricordo di Bardotti: un grande spettacolo personalizzato e mai spersonalizzante. Continuiamo a sperimentare
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
“Tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi, né che sia. Soltanto ne conserviamo – pungente e senza condono – la spina della nostalgia”. Lo ha scritto Giorgio Caproni, il poeta che l’ultimo esame di maturità ha tolto dall’anonimato scolastico scatenando il panico a frotte tra studenti. La nostalgia come dono. Epperò un dono infido. Se la nostalgia è solo rifugio nel passato sei fregato. Ma se il passato ti serve a soppesare il presente, allora ben venga ogni ricordo.
Ebbene, di ricordi sabato sera il teatro Sociale di Trento s’è riempito. Dalla platea fino al loggione. Ricordi singoli. Ricordi collettivi. Ricordi vestiti di ricami vocali complessi eppure miracolosamente famigliari. Ricordi suonati con una classicità che più moderna non si può. Ricordi materializzati dal carisma più che ottuagenario di un’artista che non può beffare l’artrite ma sbeffeggia la vecchiaia con il gerovital salvifico di un’ironia quasi bambina.
Ricordi al diapason dell’emozione. Grazie ad un cantare tanto umile quanto gigantesco nella capacità di lasciare in primo piano l’essenzialità. E dunque l’essenza di un testo. Ricordi di una notte d’autore. La notte dedicata a Sergio Bardotti, artigiano del verso da applicare alle note. Il verso che dà alla musica un senso. E che dà al senso, al messaggio, una popolarità tempo resistente. “Notte d’autore, canzone per te” – il titolo dello spettacolo-omaggio proposto dal Conservatorio di Trento (in collaborazione con tanti altri). Si potrebbe commentare in una sola parola: magnifico.
Ma la sintesi, seppur utile a svicolare dai rischi retorici di fronte ad un raro arcobaleno di sentimenti suscitati dalla folla di protagonisti della serata evento, farebbe torto al progetto. Un progetto potrebbe portare a gratificazioni ben più ampie dell’ovazione riservata a chi ha dato nuova anima e nuovi colori all’arte indimenticabile di Bardotti. I cantanti, (e che cantanti). Una piccolo/grande ensamble pop-jazz del Conservatorio. Un’orchestra sinfonica, l’Haydn. Un insieme atipico, coraggioso. Un incontro inconsueto: irrituale ma per nulla inattuale. Una fusione di tecniche e di sensibilità. Una contaminazione per nulla facile, per nulla scontata che, tuttavia, quando trova un denominatore comune ha un impatto esponenziale.
In “Notte d’autore” il collante era la forza della parola. Delle parole coltivate da una cultura solida, mai banale, eppure miracolosamente popolare. Delle parole libere di volare dall’Europa al Sud America – dalla Francia al Brasile, dal Brel a De Moraes - per crescere planata dopo planata in suggestione e fama.
Le parole di Bardotti. Le parole che Bardotti scrisse per Sergio Endrigo o per Lucio Dalla trasformando, tanto per citare, Piazza Grande in una piazza in cui si ritrovava tutta Italia e “Canzone per te” in una festa di sentimento che incominciata nel lontano Sessantotto non è mai finita. Ma le parole da sole non bastano anche se di parole meno evanescenti oggi c’è bisogno. Un disperato bisogno. La musica – certa musica – rende merito alla parola. E, ovviamente, viceversa. Se parole e musica si rispettano davvero – se amoreggiano senza rincorrere la scorciatoia della rima o del ritmo furbetto – la canzone è immortalità. Ma qui torna l’inizio. Qui si torna a dover parlare di nostalgia. Le canzoni non possono mai essere uguali. Non devono essere uguali. E saggiamente delle grandi canzoni di Bardotti la “notte d’autore” ha regalato versioni personalizzate, in qualche caso magicamente personalizzate, ma mai spersonalizzanti.
Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, un usignolo feroce ed un basso che si proietta in alto ad ogni tocco, hanno tradotto la “Canzone dei vecchi amanti” - che Bardotti aveva felicemente preso a prestito da Jaques Brel - in un linguaggio dell’oggi. Un teatro canzone fatto di corse e frenate, così com’è, o dovrebbe essere, l’amore. Maria Pia De Vito, il virtuosismo canoro che si fa jazz ma non si ingessa, ha permesso all’Orchestra Haydn di fare una “Costruzione” perfino avanguardistica di una meraviglia scritta a tre mani, (mani sante) da Bardotti, Jannacci e Chico Buarche de Hollanda.”Fluttuò in aria come fosse un passero, e finì a terra come un sacco flaccido”: un verso, un solo verso che vale mille convegni sulla sicurezza sul lavoro. E una musica, quella incalzante fino all’imbarazzo dell’Haydn, che “filma” tra archi e tamburi il “diritto alla vita” e alla dignità.
A Simone Cristicchi che canta “Te lo leggo negli occhi” con tutto il trasporto e la verità di cui è capace solo l’onestà artistica, Bardotti, se in vita, avrebbe probabilmente concesso altre letture. Altre canzoni. Altre interpretazioni coerenti con quello che un paroliere vuol esprimere attraverso chi lo canta. Ad Ornella Vanoni invece Sergio Bardotti avrebbe chiesto né più né meno di rimanere in eterno Ornella Vanoni. Intensità stupefacente. Personalità stupefacente. Anagrafe stupefacente. Lei, la Vanoni, a Bardotti – il fratello amico “dall’intelligenza che quest’epoca non merita” – deve un’arte che le sopravvivrà. Lui, Bardotti, alla Vanoni deve la materializzazione dei suoi pensieri. Quelli pubblici e quelli privati. Quelli noti e quelli reconditi. “Accendi una luna nel cielo”? Macché, tra i due la luce non s’è mai spenta. Si vedono e si capiscono anche nel buio più pesto. Si vedono e si capiscono anche se uno dei due non c’è più.
E poi altri. Poi Vittorio De Scalzi, reduce ancora zazzeruto dei New Trolls, che con Aldebaran e Shade, (dal Concerto Grosso) fa capire che non tutto l’italico beat d’imitazione venne – almeno in qualche caso - per nuocere. E ancora le orchestre: il gruppo pop/jazz del Conservatorio fa professione di presente e insegna a chi suona per cazzeggio che anche il divertimento necessita di radici forti. I professori della Haydn se la godono come i bimbi nel mettere la qualità al servizio di atmosfere contesti popolari. Infine un signore di un pentagramma in cui una chiave spicca da sempre sulle altre: la chiave dell’innovazione. Armando Franceschini, direttore “storico” del Conservatorio di Trento e promotore appassionato dell’evento di sabato, trovò nell’amicizia con Bardotti la possibilità di sposare la musica accademica a quella cosiddetta leggera. Non per ego, né per sfizio. Per dare, semmai, sbocchi di lavoro – artistico – ai giovani.
Con Bardotti Franceschini scrisse un pezzo, il Marinaio, affidato sabato al talento in crescita di Caterina Croppelli e alla precisione orchestrale. Il pezzo sfiorò Sanremo. Ma il Marinaio naufragò nel mare di miserie delle quinte festivaliere. Senza Sanremo si campa comunque. Ma Franceschini, e il Trentino, avrebbero campato peggio se la stima reciproca tra lui e Bardotti non avesse prodotto l’istituzione del primo corso in Italia di “popular music” al Conservatorio di Trento. Questo è quanto. Anzi quasi. Il seme gettato dal progetto del Conservatorio, infatti, merita un’attenzione, una cura, che non si può limitare all’applauso e alle pacche sulle spalle a chi dirige il Conservatorio, (Bungaro/Ghezzi, docenti, allievi eccetera).
Nelle prime file, al Sociale, c’erano sindaco, assessore alla cultura, Provincia e chissà chi altro. Volendo, hanno l’occasione di ragionare su come dare continuità a questa felice esperienza di commistioni virtuose. A questo proposito di cancellare le distinzioni tra musica classica e musica leggera. Il Conservatorio ha una proposta concreta che guarda anche alla futura ristrutturazione di Ex Lettere, la cittadella creativa ancora confusamente teorica. Il Comune ha un Centro Musica lontano dal Conservatorio: fisicamente ma soprattutto idealmente. Cosa vieta di avvicinarli? E di avvicinarli al Centro santa Chiara in una sinergia inedita e coraggiosa?
Certo, sabato il gioco dell’arte e della qualità era facile per l’intreccio tra la grandezza di Bardotti e quella di chi s’è prestato a ridarle vita e magia per una sera. Ma non è detto che da un rapporto più stretto tra un’istituzione formativa e una fucina di energie rockettare acerbe ma appassionate non possa nascere qualcosa di davvero nuovo. Sperimentare per credere.