Moonlight, film amaro sull’esistenza di ragazzi incapaci di uscire dal ghetto candidato a 8 Oscar
Appassionata di arte e cinema con Chaplin nel cuore
Strade desolate, case abbandonate con finestre di cartone, ma dove sono i bianchi? Il tutto nel quartiere Liberty City di Miami, scenario e protagonista del secondo lungometraggio di Barry Jenkins, che ha radici proprio in questo quartiere, considerato tra i più pericolosi d’America. E conosce bene la vita dei tossici e degli spacciatori. Pure sua madre era tossicodipendente. Dimentichiamoci le strade con ville di lusso, dimentichiamo le spiagge frequentate da bianchi ricchi e belli, Miami Vice è lontano anni luce. Qui un regista di colore ci mostra i quartieri dei neri, le scuole, i professori, le case sempre e solo dei neri.
E’ un mondo che sembra arrivato da lontano, senza dialogo. Spesso il film si abbandona al silenzio. Con il protagonista, Chiron, afroamericano, che non parla, tra corse e sotterfugi per fuggire dalla banda di bulli neri che lo rincorrono per picchiarlo, rifugiandosi in una casa fatiscente. Lui è solo un bambino, ma saprà come difendersi. Trova conforto solo da uno spacciatore di crack, che si prende a cuore il ragazzo portandolo a casa dalla fidanzata. Intanto la madre pensa solo alla droga, manifestando isterica gelosia del rapporto che il suo ragazzino ha instaurato con la strana coppia protettiva. Nessun riferimento o citazione al padre.
Tutto è ostile e Chiron si guarda attorno per capire cosa fare. Non vuole essere nel branco, ma neppure essere il più bravo. E si sente diverso, in tutto. La negritudine diviene morbida poesia nelle mani di una regia attenta alle emozioni, alla luce che si riflette nella notte e che rende, alla flebile luna, i ragazzini neri, blu. Intanto Chiron cresce, diventa adulto, inesorabilmente seguirà la strada dell’uomo (lo spacciatore) che inizialmente lo aveva aiutato, insegnandogli tra l’altro a nuotare. Particolare significativo. Perché la spiaggia, il mare sono i luoghi in cui il ragazzo cresce dentro e trova la sua strada che purtroppo è segnata.
Un film amaro sull’esistenza di ragazzi incapaci di uscire dal ghetto in cui sono nati. Senza amore le anime pure si perdono e la poesia diviene rabbia e riscatto. Nessuno è ciò che sembra, tutti recitano una parte. Tra inquadrature disarmanti dove la macchina da presa è appiccicata al protagonista e ruota con lui nel vortice dei sentimenti inaspettati ma voluti, assistiamo ad una crescita interiore, un percorso introspettivo di un giovane che scopre la propria omosessualità e contemporaneamente l’amore.
Dall’apparente fragilità iniziale Chiron, chiamato ‘il piccolo’, si trasforma in macho aggressivo, comunque profondamente solo. La felicità è qualcos’altro. Perchèé poi si deve essere felici? Inaspettatamente una telefonata gli cambierà la vita. Fa da filo conduttore la colonna sonora curata egregiamente da Nicholas Britell, tra ritmi hip hop a trasformazioni musicali che si adeguano perfettamente ai cambiamenti fisici di Chiron, bambino, adolescente e poi adulto. Buona la performance dei tre attori, nel loro difficile ruolo. L’unico lato negativo, il film dovrebbe essere in edizione originale, il doppiaggio risente di cadenze dialettali inadeguate.
Un film di sentimenti profondi, di paure che sono universali ed accomunano l’umanità, con solenne discrezione (nessuno mi ha mai toccato, dirà il protagonista). Sono i moti dell’anima come nei ritratti di Leonardo da Vinci. Moonlight (prodotto da Brad Pitt), ha 8 nomination agli Oscar, tra cui le tre più importanti (miglior regia, miglior film, miglior sceneggiatura). Neanche il grande Spike Lee le ha mai ricevute. Erano altri tempi.