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''Cold War'', il bianco e nero che non invecchia mai

La bellezza dei volti è una delle caratteristiche dei film di Pawlikowski, così come la musica è fondamentale. La pellicola è dedicata ai genitori del regista, i nomi sono gli stessi e simile è stato il loro incontro
DAL BLOG
Di Alda Baglioni - 28 dicembre 2018

Appassionata di arte e cinema con Chaplin nel cuore

Feste natalizie uguale cinema d’evasione? La scelta di un film magari premiato a Cannes, pure dalla giuria 2018, potrebbe non essere gradita. Poi è anche in bianco e nero. Sa di vecchio. Eppure queste certezze possono essere tranquillamente smentite da una storia d’amore per niente scontata. Stiamo parlando di “Cold War” del regista polacco Pawel Pawlikowski.

 

Chi ha visto “Ida” e non lo può dimenticare, ha capito di cosa si tratta. “Ida” del 2013, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero nel 2015. Anche quest’anno il film polacco è candidato, l’Italia con “Dogman” di Matteo Garrone non è purtroppo nella cerchia. Forse una storia troppo estrema. Il protagonista poi, non ha certo la bellezza ed il fascino di Tomasz  Kot.

 

La bellezza dei volti è una delle caratteristiche dei film di Pawlikowski. Ida (l’attrice è Agata Trzebuchow) ha un viso disarmante. Non ci sono molti movimenti di macchina,  bianco e nero con grigi velati su strade che s’incrociano fra campagne brulle. Lei è una ragazza che dovrà scegliere se prendere i voti e chiudersi in convento o vivere come una ragazza della sua età. Ida ha vissuto solo in convento, scopre di avere una zia ed un passato spiacevole.

 

In realtà il regista usa la figura della protagonista per andare indietro nel tempo. La Polonia della seconda guerra mondiale. Lo sterminio degli ebrei, le uccisioni brutali, le cose non dette. Ida farà i conti con il suo passato, il fratello, i genitori, la zia sopravvissuta, il periodo socialista,  il jazz  sottofondo e simbolo di un’effimera libertà.

 

La musica è fondamentale per il regista polacco. Anche in “Cold War” il passato è alle porte e la musica fa parte della vita dei protagonisti.

 

In quindici anni, nel periodo del socialismo reale una compagnia di canto popolare folcloristico polacco gira da un teatro all’altro, da Varsavia alla Jugoslavia (con le note di  24.000 baci di Celentano) a Berlino est con il muro che divide, anche i protagonisti. Interessanti le ricostruzioni scenografiche  dal 1949 al 1964.

 

La vita tormentata dei due componenti della compagnia di canto, il pianista Wiktor (sempre con la sigaretta in bocca) e la giovane Zula cantante e ballerina si unisce in un amore a prima vista. La bionda ed irrequieta Zula (Joanna Kulig in “Ida”, Joanna aveva sempre i panni di una cantante, ma la sua parte era marginale) ha un passato contorto. E’ in libertà vigilata, pare abbia ucciso un uomo, suo padre.

 

Il piano sequenza imperversa, fin dall’inizio. Una sorta di lentezza che vuole entrare nell’intimità dei suoi protagonisti. Particolare il formato delle inquadrature, il soffice bianco e nero innalza i primi piani dei visi in tagli di luce contrastanti.

 

Bei visi, bella musica, dalla Polonia staliniana alla Francia, a Parigi, i locali di tendenza, “Eclipses” il jazz, dove i due innamorati si ritrovano, si amano, scappano da loro stessi. La patria è lontana. “Il concetto di patria è un tema sempre aperto nel mio cinema” dice il regista. Lui ha lasciato Varsavia a quattordici anni, per andare in Germania ed anche in Italia ed in Gran Bretagna.

 

Il luogo in cui si nasce rappresenta necessariamente la propria patria? Il film è dedicato ai genitori del regista, i nomi sono gli stessi e simile è stato il loro incontro.

 

La guerra fredda che sembra non abbia fine, come infinite sono le vicende accadute negli anni bui del dopoguerra, intorno a quel muro, alle strade che s’incrociano nei grigi paesaggi spogli ed alle vuote immagini finali. Il bianco e nero evoca con forza immagini che appartengono alla memoria. Il film è al cinema Astra di Trento.

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