Addio a Francesco Dal Bosco artista inquieto e visionario tra Robert Bresson e Godard
Appassionata di arte e cinema con Chaplin nel cuore
L’arte unisce. E’ stato così per me, con Francesco Dal Bosco. Nel 2002 girando per le sale del Museo Correr di Venezia dove veniva allestita la retrospettiva su Jackson Pollock, vidi il video “Jackson Song” di Francesco. Il video testimonia la sua formazione tra gli Stati Uniti di Burroughs e John Ford e le sue radici trentine. Un modo molto personale di assemblare le immagini, le interviste, la colonna sonora. Si crea l’ambiente in cui Pollock è vissuto e ha creato, con l’action painting, i suoi lavori, il dripping.
Il suo studio, immerso nella natura. Piani sequenza e dettagli. Una suggestione poetica, resa dalla colonna sonora tra il classico ed il jazz, che dialogano con le immagini di pittura contemporanea basate sul colore, il gesto, il segno. Un bel lavoro di 39 minuti che dovrebbe essere mostrato nelle scuole per capire cosa vuol dire essere artisti e fare arte. Io milanese trapiantata negli anni Ottanta, ancora non conoscevo Francesco. Ma le sue immagini mi hanno subito coinvolto. Ho chiesto a Sergio Bernardi, direttore di Uct, rivista culturale trentina a cui collaboravo, di scrivere un pezzo sul regista, allora sicuramente più conosciuto in ambienti culturali distanti da Trento.
Da quell’intervista si è formata così un’intesa, legata metaforicamente dalla passione per il mondo dell’immagine, in particolare il cinematografo. Ci si incontrava in città, era sempre un piacere anche se lui, molto riservato, non raccontava facilmente di sé. Sembrava un gran sognatore, ma attento conoscitore della realtà. Gli interessava indagare sulle scelte della gente. Il lavoro sui centri commerciali, i luoghi comuni tra massificazione e solitudine esistenziale. Dall’uomo comune agli artisti affermati per esprimere l’esistenza di un’umanità sul filo del rasoio. I luoghi come le carceri, dove fuori piove, le immagini si muovono nervosamente tra le celle, tra gli ostelli della Caritas di Roma, il Punto d’incontro di Trento, come il corridoio del famoso “Overlook hotel” di Stanley Kubrick.
E in “Apocalisse”, un lavoro di Francesco del 2009, c’è tutta la sua essenza, il suo stile di cineasta indipendente. Lo spettatore si deve sentire guardato da quei visi che non hanno nulla da perdere. E’ come un testamento esistenziale, che unisce chi è povero ed emarginato, chi ha peccato, alla vita, alla speranza di libertà. L’apocalisse siamo noi con la nostra indifferenza. Un’indifferenza che ha colpito anche le scelte di un Trentino, incapace di distinguere e valorizzare un artista, inquieto visionario, tra Robert Bresson e Godard, dentro la propria terra, senza confini.