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Più rischi in montagna con il cambiamento climatico e l’aumento del turismo. Roberto Bolza del soccorso alpino: “crescita culturale e non divieti generici”

Intervista a Roberto Bolza, consigliere nazionale del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico (Cnsas), sull'attività del Cnsas nelle ultime stagioni caratterizate da repentini cambi delle condizioni meteorologiche e da un continuo aumento del turismo nelle terre alte

di
Agenda17
03 maggio | 18:00

A cura di Sandy Fiabane (Agenda17)

 

“Nelle ultime stagioni abbiamo assistito a cambi repentini delle condizioni climatiche, di punto in bianco si passa da temperature molto elevate a giorni di freddo nei quali si può rischiare l’ipotermia in quota. E questo, anche se in montagna il temporale improvviso o la grandinata sono sempre arrivati, incide sicuramente: sono le condizioni peggiori, perché le persone con meno cultura ed esperienza si trovano ad affrontare condizioni sensibili. È evidente che il clima influisce tantissimo, sia sull’aumentare i rischi sia nel rendere difficili i soccorsi e il rischio di farsi male seriamente aumenta” afferma Roberto Bolza, consigliere nazionale del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico (Cnsas).


Quest’anno il Cnsas celebra i 70 anni di attività (©facebook/CNSAS)

A pochi giorni dal rilascio dei dati sull’attività 2023 del Cnsas, abbiamo chiesto a Bolza un commento su un anno di interventi e quali fattori incidono oggi maggiormente sul loro lavoro.

 

Frane e valanghe: la correlazione con il clima che cambia

 

Anzitutto il cambiamento climatico, tra le cui conseguenze c’è la crescita dei processi di instabilità naturale (frane, colate detritiche e instabilità glaciale). 

 

Da un lato le frane, prevalenti nella stagione estiva: a incidere è soprattutto la degradazione del permafrost, che non riesce più a trattenere le rocce. Secondo il catasto del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), infatti, l’estate 2022 ha fatto registrare il numero più elevato di frane sulle Alpi dal 2000. “È evidente che il trend in atto – afferma Bolza – favorisce l’effetto della gravità sui versanti. Il permafrost sta arretrando per cui gli strati superficiali delle pareti sono più instabili, nonostante vada anche detto che oggi si hanno molte più notizie di crolli perché l’informazione è più capillare, anziché rimanere confinate al territorio come in passato.”

 

Dall’altro lato, le valanghe. Secondo il WLS Institute for Snow and Avalanche Research SLF, con sede a Davos, entro la fine del secolo ci dovremo aspettare una crescita delle valanghe di neve umida, anche in alta stagione turistica, mentre diventeranno meno frequenti le instabilità di manto nevoso secco. Inoltre, cambiamenti metereologici imprevisti come la pioggia in pieno inverno renderanno sempre più impegnativo il lavoro dei servizi di allerta e del soccorso.

 

“Sulla questione valanghe – prosegue – sono invece più dubbioso: la dinamica di rialzo delle temperature dopo le nevicate, con i rischi che ne conseguono, è sempre esistita. Bisogna infatti distinguere: se ragioniamo di pareti e seracchi, come nel crollo in Marmolada, indubbiamente le temperature degli ultimi anni rendono alcune zone più rischiose e probabilmente determinati approcci a vie classiche andranno ripensati. Tuttavia, trovo forse prematuro legare il singolo episodio valanghivo a un trend generale.”

 

Sport e turismo: molti fattori incidono sull’aumento degli interventi

 

Al cambiamento climatico si aggiungono diverse circostanze che determinano le richieste di soccorso. Nel 2023, nella metà dei casi si tratta di cadute/scivolate (45,9%) e in uno su quattro di incapacità (25,5%), mentre solamente una minoranza dei soccorsi è dovuta a malore (12,1%). Delle 12.365 persone soccorse, solamente una su dieci (1.219) era iscritta al Club alpino italiano (Cai). 

 

Come leggere questi dati? “Anzitutto – risponde Bolza – la percentuale di chiamate è infinitesimale rispetto alle persone che frequentano la montagna, altrimenti sarebbe una strage. Detto ciò, l’aumento degli interventi ha tante motivazioni, a partire dalla maggiore frequentazione della montagna dopo il Covid e a causa del cambiamento climatico, che rende invivibili la pianura e la città in certi periodi.

 

Sicuramente essere iscritti e frequentare un’associazione con 150 anni di cultura della montagna pone ad affrontare escursioni e attività in modo più responsabile, ma non mi viene da evidenziare una correlazione immediata tra il minor numero di infortunati del Cai e gli altri turisti. Vanno infatti considerati tutti i fattori, ad esempio l’ampliamento delle attività sportive: in particolare l’avvento delle e-bike è una rivoluzione, perché permette anche ai meno giovani di andare sui sentieri con una fatica accettabile. Oppure downhill o base jumping, attività meno praticate ma con numeri di infortunio, spesso mortale, estremamente elevato. 

 

Purtroppo, spesso non c’è alcuna conoscenza dei rischi. Inoltre se una volta prima di chiamare il soccorso si cercava in tutti i modi di scendere autonomamente, ora molti, nel momento in cui escono dalla zona di comfort, perdono le sicurezze e le cose diventano più grandi di quello che sono proprio perché manca una formazione adeguata e a volte chiamano i soccorsi inutilmente.”

 

Non aumentare i divieti ma privilegiare la crescita culturale

 

Ritorna quindi una questione dibattuta quando si parla di sicurezza in montagna: valgono di più divieti e sanzioni o una crescita culturale? “Non ho dubbi – commenta – sul fatto che gli infortuni diminuiranno nel momento in cui le persone cresceranno culturalmente, cioè quando si renderanno conto che devono avere una determinata attrezzatura e, cosa non scontata, saperla usare, ma soprattutto allenamento mentale e conoscenza.

 

Il divieto esplicito, invece, deve esserci per qualcosa di veramente circoscritto e pericoloso e, se introdotto, in qualche modo va vigilato sul suo rispetto. Mettere divieti generalizzati non avrebbe senso, oltre al fatto che non raggiungerebbero l’obiettivo.”

 

Come dunque intervenire per ridurre i rischi?

 

“La domanda è bella – conclude Bolza – ma la risposta è difficile da trovare. Si dice sempre che bisogna partire dalle scuole. Sembra uno scaricabarile, demandando agli insegnanti anche l’educazione a senso civico e responsabilità, però è un dato di fatto che se devi gettare un seme e curarlo va fatto con un avvicinamento in età scolare.

 

Inoltre contribuiscono i rifugi, le associazioni, le guide e il soccorso alpino: è una presa di coscienza comune che erode un granello alla volta in una montagna di sabbia enorme. 

 

Aiuterebbe anche un approccio turistico diverso, ma bisogna essere realisti. Non c’è differenza tra chi sale in montagna senza consapevolezza e chi, solo perché in piscina fa una vasca in più, pensa di poter nuotare al mare con leggerezza: è un lavoro di formazione continuo e senza certezza di risultato. Non c’è un obiettivo preciso raggiunto il quale tutti sanno cosa fare: piuttosto, si continuano a fornire informazioni sperando che siano raccolte.”

l'autore
Agenda17

Agenda17 è realizzato dal laboratorio DOS (Design of Science) dell'Università di Ferrara in collaborazione con l'Ufficio stampa, comunicazione istituzionale e digitale dell'Università di Ferrara. Pubblica notizie e contenuti scientifici relative ai 17 obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile, declinandoli nei relativi contesti sociali, economici, culturali e politici

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