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"Il problema non sono le case crollate. Il problema sono i danni invisibili". Un viaggio fotografico in bicicletta nell'Appennino colpito dal terremoto

Il racconto fotografico del Grande Anello dei Sibillini: una pedalata solitaria di tre giorni nel cuore degli Appennini, tra i luoghi d’infanzia trasformati dal terremoto di Amatrice del 2016

di
Michele Filippucci
10 novembre | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Mentre guardo scorrere oltre il finestrino del treno aridi campi di granturco e girasoli, sento una scossa di nostalgia che percorre il mio corpo. Quando ero bambino venivamo in Umbria tutti gli anni. Tutta la famiglia dal lato paterno si riuniva nella casa di campagna dei nonni, dove con i cugini passavamo intere giornate a inventare giochi, guardare cartoni animati ed esplorare le solite quattro strade sterrate intorno alla casa. La sera, con il buio come alleato, giocavamo a nascondino correndo in mezzo ai campi dei nonni, dove i fusti del granturco ci graffiavano le caviglie.

 

A differenza dei ricordi, questa volta mi aspettano giorni solitari. In parte sono dispiaciuto, in parte ho deciso di sfruttare questa visita per espandere i confini delle mie scarse esplorazioni infantili. Ho con me la bicicletta e intendo circumnavigare la catena montuosa dei Monti Sibillini, un luogo in cui sono già stato, ma senza mai veramente capirne la geografia e l’identità.

 

Arrivo a Spello di sera ed i miei zii mi aspettano con la tavola imbandita di un pollastro ruspante della fattoria di fianco a casa, le verdure dell’orto ed il vino della vigna del nonno. Almeno il rito della mangiata serale è preservato e sono ben contento di riempirmi la pancia di cibo buono in vista dei giorni di essenzialità che mi aspettano. Ci raccontiamo come sono andate avanti le nostre vite e li metto al corrente dei miei programmi per i giorni successivi. Mio zio si offre di darmi un passaggio fino al confine con le Marche per accorciare il tracciato che ho in mente, piuttosto ambizioso per i tre giorni previsti ed il mio allenamento. Accetto di buon grado.

L’indomani mattina risaliamo il fiume Menotre fino a Colfiorito, dove saluto mio zio che si allontana a bordo della sua Panda nera. La vallata intorno a me si sta svegliando, la gente inizia a popolare le strade ed i cantieri cominciano ad emettere rumori sordi e ritmici. La valle non è ancora tornata alle sue sembianze originali dopo il terremoto con epicentro ad Amatrice del 2016 e ad ogni angolo c’è una casa con le impalcature o una rete di plastica arancione con segnale di divieto d’accesso. 

Lasciando il fondo valle i rumori dei cantieri si allontanano, ma non faccio in tempo a saziarmi di quella tranquillità che il paesaggio intorno a me si trasforma all’improvviso: i prati perdono la loro brillantezza facendosi di un grigio scuro. Sopra di me una grande nuvola comincia a borbottare, e dopo pochi minuti i tuoni minacciano un temporale. La pianura di fianco al crinale della montagna è già bagnata dalla pioggia e non devo perdere tempo, così raggiungo il primo colle e mi getto lungo un sentiero sconnesso sul versante opposto. Arrivato in un paese di nome Montefortino le nuvole sono più rade, eppure non mi sento tranquillo.

Guardo l'ora mentre mi asciugo il sudore dalla fronte, che non smette di scorrere in questa calda e umida giornata di fine agosto. Se voglio riuscire a rientrare a Spello in tre giorni devo darmi una mossa. Decido di darmi l’obiettivo di raggiungere il Rifugio Altino entro la sera, così da coprire una buona parte del dislivello previsto.

 

Riesco a raggiungere il rifugio per la notte, o meglio per piantare la tenda di fianco al prefabbricato che è stato costruito al posto del rifugio pericolante, danneggiato anch’esso dal terremoto. Avrei voluto mangiare qualcosa di caldo scambiando qualche parola con i rifugisti, ma la struttura è chiusa a causa della scarsa clientela di una giornata infrasettimanale di fine agosto.

Quando, il mattino dopo, il sole supera il profilo delle montagne ed inizia a scaldare il versante in cui mi trovo, ho coperto una frazione minima della strada che avrei voluto percorrere. Quella che ieri era una strada oggi è un sentiero di pietre calcaree aguzze che mi costringe a procedere lentamente. Impiego alcune ore per raggiungere l’asfalto della strada provinciale per Forca di Presta, l’ultimo tratto che mi separa dalla piana di Castelluccio. Di fianco a me leggo l’insegna di un chiosco con le serrande abbassate: ‘Gusto di Appennino’. Al pensiero dei formaggi e dei salumi che avrei potuto mangiare se il chiosco fosse stato aperto sento l’acquolina in bocca. Mi fermo comunque per mangiare il cibo che porto con me. Masticando la mia barretta proteica, rileggo la scritta e penso all’ironia della situazione: in questo momento il gusto di Appennino è piuttosto amaro.

Dalla Forca di Presta riconosco il monte Vettore, la cima più alta del gruppo dei Sibillini. Da questa prospettiva noto come l’Appennino abbia un volto più dolce delle Alpi: i pendii del monte seguono degli archi rilassati e sono dipinti di un giallo uniforme, interrotto qua e là dalla vegetazione. Imbocco un sentiero in discesa che serpeggiando fra boschi e radure mi porta a perdere dislivello fino a raggiungere una distesa enorme di campi ingialliti dal sole: è l’altopiano di Castelluccio. In fondo alla piana scorgo l’omonimo paese, o meglio quello che ne rimane. Tre gru segnalano sul profilo della montagna l’area in cui si trovava il paese, che oggi, a parte alcune costruzioni sulla strada provinciale, è ancora ridotto ad un cumulo di macerie.

Mentre provo un misto di frustrazione per la sorte di Castelluccio di Norcia e di soddisfazione per aver raggiunto l’altopiano, le nuvole sopra la mia testa tornano a raggrupparsi in cumuli e tingersi di colori sempre più scuri. Non ora, penso, non adesso che mancano poche ore di pedalata. Guardo il radar freneticamente, indeciso sul da farsi. Salire in cresta per raggiungere la città di Visso dall’alto, guadagnando paesaggi mozzafiato e rispettando il tracciato previsto, oppure rinunciare e seguire il fondo valle? Un’onda di orgoglio mi riempie di energia e decido di proseguire verso la cresta.

Proseguo con la fortuna dalla mia parte, su una strada che serpeggia da un lato e dall’altro della cresta del Monte delle Rose, tra nuvole scure e raggi di sole, senza mai una goccia di pioggia. In discesa lascio andare la bicicletta senza toccare i freni, seguendo le pendenze dolci di quelle montagne, che con questa luce sembrano dipinte ad acquerello. La discesa finisce a Visso, ma devo continuare a pedalare. Voglio raggiungere il rifugio Casali, dove passerò la mia seconda e ultima notte tra i Monti Sibillini.

Risalgo la val di Panico ammirando il tramonto sulle pareti dolomitiche del monte Bove. Di fianco a me scorrono i resti di Ussita, una cittadina turistica vocata al turismo della neve, oggi depressa a causa del terremoto.

Arrivo al rifugio Casali quando è quasi buio. Anche questa volta si tratta di un prefabbricato provvisorio in un paese fantasma. Molte case sono segnate da crepe: fessure e ferite che insieme alle piante rampicanti avvolgono i muri, rendendoli inadatti all’abitare. I gestori stanno chiudendo il rifugio per andare a mangiare in paese ma mi consentono di piantare la tenda nel prato di fronte e di usare la loro acqua. Riesco a scambiare alcune parole con uno di loro, che mi dice: ‘Qui nessuno sta ricostruendo perché manca la volontà. Tante delle case intorno a noi sono seconde case, e quelle che erano abitate ora non lo sono più. La gente ha deciso di trasferirsi in pianura, in luoghi più sicuri, con più lavoro.’ 

Pensieroso monto la mia tenda e mangio quel che rimane di un panino al ciauscolo, il salame locale, comprato a Castelluccio. Un premio tenuto da parte durante la giornata che finalmente posso gustarmi sotto le stelle, consapevole che il giorno dopo mi aspetta una tappa senza difficoltà.

 

La sera dopo sono di nuovo a cena dei miei zii, a cui racconto degli effetti del terremoto e della desolazione che dopo otto anni dal sisma ancora affligge quei luoghi. Mio zio ha uno sguardo cupo, triste, ma anche rassegnato. E’ mia zia a prendere la parola per prima: "Anche a Spello era così: nel mio lavoro di restauratrice mi capita ancora di lavorare per riparare i danni del terremoto del ‘97". Segue mio zio: "Da quando mi ricordo il tempo di ritorno di questi fenomeni è stato di dieci anni. Quindi ecco, siamo vicini al prossimo terremoto". Dopo una breve pausa continua: "Ormai Spello è antisismica, tutte le case sono state ricostruite a norma di legge e oggi molte di esse sono confortevoli B&B. Il problema non sono le case crollate, quelle verranno ricostruite. Il problema sono i danni invisibili, lo spopolamento e la scomparsa delle tradizioni, che colpiscono soprattutto le aree più fragili". 

 

Fragili come le montagne, penso, troppo spesso lontane dallo sguardo della pianura. E’ difficile vedere ciò che succede lassù, specialmente quando la nostra attenzione rimane entro i confini della propria quotidianità: nel mio caso, entro i confini dei campi intorno alla casa di famiglia, che da ragazzino rappresentavano il mio mondo, o almeno la mia Umbria.

 

Ringrazio 'Sibillini Bikepacking' per il tracciato e per il lavoro di valorizzazione di questo splendido percorso nel cuore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Ulteriori informazioni: link

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